Con cadenze periodiche, ogni qualvolta la Cassazione è chiamata a pronunciarsi in vicende giudiziarie di mafia, i cui protagonisti sono esponenti del mondo delle istituzioni, della politica, dell’impresa o delle professioni, si riapre il “dibattito” sul concorso esterno1.
Il confronto si riaccende quando un “personaggio eccellente” si viene a trovare invischiato all’interno del torbido spartiacque che divide l’effettiva partecipazione ad un sodalizio criminale da condotte penalmente indifferenti2. Il clamore di queste vicende, sicuramente accentuato dal rilievo mediatico ad esse assegnato3, contribuisce ad alimentare le “riflessioni” degli studiosi su alcuni interrogativi che da sempre hanno accompagnato la compartecipazione criminosa nell’associazione mafiosa. Dispute, queste, fortemente condizionate dalla stessa natura dell’istituto: “liquido, fluido, controverso, tormentato, divisivo … fonte persistente non solo di complesse dispute tecnico – giuridiche, ma persino di guerre di religione combattute a colpi di contrapposti slogans sparati nel circuito politico – mediatico dagli appartenenti ai due partiti avversi dei credenti e dei demolitori”4.