| RIVISTA SEMESTRALE - ISSN 2421-0730 - ANNO X - NUMERO 2 - DICEMBRE 2024

Guerra, impero, democrazia. Dello spirito del tempo

DI MASSIMO LA TORRE

I.

Una ferita non curata s’infetta facilmente, si fa piaga, e si espande a tutto il corpo, e la ferita può diventare una malattia mortale. È quello che accade al maestro di musica del Re Sole, Giovanni Battista Lulli, che si ferì il piede con un bastone. La ferita si fece piaga, la piaga incancrenì. Si sarebbe dovuto amputare l’arto, ma Lulli si rifiutò, e così, infine, la cancrena, espandendosi e avvelenandone l’intero organismo, lo condusse alla morte. È quello che, in maniera figurata, potrebbe star succedendo in questo nostro mondo, in particolare tra America, Europa e Medio Oriente, per ciò che concerne la salute della vita di relazione. Le ferite o infezioni sono molteplici. Le più visibili sono quelle della guerra. Un fatto il cui orrore si rispecchia talvolta per onomatopea nelle parole, in varie lingue, che lo designano.

Guerra, guerre, war, krieg, oorlog, harp, solo per ricordarne alcune di tali parole, sono suoni crudi, duri, vocali aspirate, e consonanti gutturali. Oorlog, guerra in olandese, dà a sentirla come parola qualche brivido, con la sua “g” gutturale, oppure Harp, con la “h” aspirata dell’equivalente di guerra in turco. Del resto, è la guerra una delle Sette piaghe bibliche, ed uno dei Quattro cavalieri dell’apocalisse, il cavallo rosso. Dürer, in una sua incisione, ci raffigura bene l’armato cavaliere che è accompagnato dal ghigno della morte che agita la clessidra di un tempo che precipita nel nulla.

L’immagine del cavaliere armato accompagnato da morte e devastazione poco si adatta però alla definizione della guerra che ci dà qualche trattato di diritto internazionale. In particolare, questo è il caso dell’opera di Emer de Vattel, Le droit de Gens, ou Principes de la loi naturelle, appliqués à la conduite et aux affaires des nations et des souverains, pubblicata nel 1758. All’inizio del capitolo primo del libro terzo troviamo questa definizione: «La guerre est cet état dans lequel on pursuit son droit par le force» (§ 1).  La guerra diventa così un atto giuridico, l’esercizio di un diritto. Solo che lo si fa con la forza. E che per l’esistenza del diritto non c’è qui giudice che la possa accertare. Inoltre, l’esercizio si opera con la “forza”. Ma la forza che si manifesta nella guerra è particolare, speciale, perché generale, e difficilmente si lascia racchiudere entro un istituto giuridico. Il tentativo del giurista è nobile, quando non è meramente apologetico, e ipocrita, ma la violenza non è materia che si lascia facilmente civilizzare e giustificare, acchiappata e ben custodita nello spazio ristretto e razionale di qualche norma. Succede invero sempre così, allorché la violenza è la situazione cui si affida il diritto. Ma nel caso della guerra il volume d’essa è tale che ci si può legittimamente chiedere se vi sia mai una guerra giusta o legale.

Ora, la guerra da sempre macchia e marchia la storia e l’identità dell’Europa. Dall’ira di Achille nell’Iliade, al Re degli eserciti della Bibbia, fino a Guerra e pace di Tolstoj, o a Niente di nuovo sul fronte occidentale di Remarque, la letteratura europea, i suoi riferimenti culturali profondi, i suoi miti, sono in gran parte legati al conflitto, violento, armato, tra paesi, popoli, comunità. E “La montagna incantata”, “Der Zauberberg”, di Thomas Mann finisce col protagonista, Hans Castorp, che va all’assalto d’una trincea nemica con la baionetta inastata. Nonostante tutte le lezioni di Settembrini, il liberale cosmopolita.

Spesso si è soliti riferire la guerra alla tirannia. Solo un popolo asservito potrebbe farsi trascinare all’assassinio di massa senza che ci siano ragioni personali per sporcarsi le mani di sangue. Tersite segue il suo re e nella assemblea dei guerrieri non gli è concessa la parola. Ulisse lo picchia con lo scettro e gli intima di stare zitto. Pronunciando tra l’altro quella frase, “uno è il capo”, che poi ritroveremo accettata da Aristotele, e citata criticamente da La Boétie nel suoDiscorso della Servitù volontaria. «Non è un bene avere tanti capi. Uno deve essere il sovrano, uno solo il re» (Iliade, II, 204-205). È Cesare a gettare il dado e ad attraversare il Rubicone. È la guerra portata alla propria casa, un colpo di Stato, e i suoi legionari lo seguono senza battere ciglio. Così nelle guerre del Settecento vediamo file di soldatini dalle uniformi multicolori, agghindati come se sia andasse ad una festa, marciare in fila gli uni contro gli altri. Qui la battaglia, la morte, è come un ballo di corte. Più tempestosa è l’impresa di Napoleone che sul ponte di Arcole afferra lo stendardo tricolore e trascina col suo entusiasmo i fanti, ancora ebri di spirito giacobino, alla vittoria sull’esercito aristocratico degli Asburgo. Ed è sempre Napoleone che raccoglie da tutta Europa centinaia di migliaia di uomini e li getta contro l’Impero dello Zar.

In Guerra e Pace c’è un’appendice, tutt’altro che breve, in cui Tolstoj tira le fila del romanzo. È un suo “o μύθος δελοι οτι” che qui si dispiega. Cosa ci insegna la storia, la vicenda narrata nel romanzo? Ebbene, l’idea è innanzitutto che la guerra si sottragga all’intenzione umana, che la sovrasti. Ciò corrisponde alla descrizione delle battaglie che troviamo nel romanzo. Nessuno è in grado di capire cosa stia succedendo veramente. Certo non ne sono capaci i combattenti, che sono trascinati da un turbinio ed un fragore di minute condotte. La confusione è massima. E d a questa confusione non può sottrarsi nemmeno colui che dirige l’azione armata, il grande condottiero, Napoleone stesso. Questa è anche l’immagine che ritroviamo ne La Certosa di Parma di Stendhal, nell’avventura di Fabrizio del Dongo, preso nel vortice sanguinoso dello scontro di Waterloo. Fabrizio non si orienta, non comprende cosa accade, mosso di qua e di là da attacchi e contrattacchi, e infine si aggira tra una massa di cadaveri, un paesaggio lunare dove domina la morte.

La guerra allora per Tolstoj è come una sorta di terremoto ripetuto, un mancarci la terra sotto i piedi, un infinito smottamento di cose e di uomini, che nulla può arrestare e controllare. Ha la stessa natura di una peste che d’improvviso si manifesta e ci piega ai suoi voleri, una sorta di destino contro cui sembra non ci possano essere rimedi. E tuttavia – è ancora Tolstoj che parla – questo evento terribile, la guerra, non è cosa che giunga dal vertice della gerarchia sociale. Si prepara negli animi del basso, delle masse, dei sudditi, di coloro che poi saranno i fanti, la carne da cannone da gettare al fronte. Senza la partecipazione, una specie di passivo compiacimento di chi la subisce, non potrebbe darsi guerra. Queste tesi, disgraziatamente, sono confermate dalla storia europea del Novecento.

Ma dopo la Seconda guerra mondiale pensavamo che la guerra non fosse più cosa degli Europei. Lo si è pensato ovviamente in maniera ingenua. La guerra “calda” si era trasformata in “fredda”, e nel centro del continente si ammassavano truppe e testate nucleari. Abbiamo vissuto sull’orlo del precipizio per decenni, ma proprio per questo il discorso della guerra era poco praticato, almeno pubblicamente. La prudenza dominava tra Mosca e Washington. Le mosse più azzardate per acquisire predominio, e mettere sotto scacco l’avversario, si facevano fuori dal nostro continente. Abbiamo così avuto una successione di guerre in Africa, in Medio Oriente, la Guerra di Corea, e poi il Vietnam sconvolto dall’intervento statunitense, l’Afganistan invaso dai Russi, una infinita sequenza i colpi di stato in America latina, tutti diretti a mettere in sella dittature militari favorevoli all’imperialismo americano. E poi, dall’altro lato della Cortina di ferro, l’invasione sovietica dell’Ungheria e della Cecoslovacchia.

Dunque, dopo la fine della Seconda guerra mondiale si ha tutt’altro che un tempo di pace. Eppure, gli Europei accarezzano l’idea che almeno tra loro la pace sia una conquista definitiva. Questa convinzione si rafforza dopo il 1989 e la caduta del muro di Berlino. E così si abolisce quasi dappertutto, almeno in Europa occidentale, il servizio militare obbligatorio. Si riducono le testate atomiche. Si riducono gli eserciti ed i denari destinati a questi.

L’integrazione europea è un progetto di pace e si alimenta di questa speranza. Si ripete che la democrazia rigetta la guerra, e che i regimi democratici sonno restii alle avventure militari e che comunque non si fanno la guerra tra loro. La società civile europea sostanzialmente si pensa come una zona demilitarizzata. Fanfare, uniformi, sfilate militari sono viste con sospetto, e comunque sono rare. L’immaginario sociale si centra su altre celebrazioni. I miti che svolgono un ruolo di legittimità del potere non sono più in genere legati alla guerra.

II.

Ma è poi vero che tra democrazia e guerra ci sia una tensione o una contraddizione?  Kant sembra crederlo. Nel suo programma per una “pace perpetua” un punto fondamentale è che gli Stati siano strutturati secondo costituzioni “repubblicane”, vale a dire mediante democrazie rappresentative dotate di una seria separazione dei poteri. Ora, in uno Stato repubblicano – pensa Kant –, in una democrazia diremmo noi, se l’esecutivo dipende dalle decisioni del parlamento, dei rappresentanti del popolo, ed a questi è deputata la conduzione della politica estera e specificamente la decisione sulla guerra, difficilmente i cittadini si avventureranno in imprese belliche che metterebbero a rischio le loro vite e i loro beni. La guerra – crede il Professore prussiano – è cosa di re e duci, governanti privi di scrupoli e responsabilità rispetto ai sudditi, che questi ultimi possono usare come soldatini nel gioco della guerra, praticato semplicemente per le loro ambizioni di potere e vanità.

In una democrazia sarebbe tutto diverso. La guerra diventerebbe rara, se non addirittura impossibile, perché nessuno vorrebbe sacrificare la propria vita in avventure senza senso. Ma è proprio così? Le democrazie, o le repubbliche nel senso di Kant, sono pacifiste? La storia pare dirci il contrario.

Se rimontiamo alle origini della nostra tradizione culturale e politica ci imbattiamo in due grandi esperienze, quella greca di Atene, e quella latina di Roma. Si tratta di due città-Stato, diverse invero per la loro struttura politica e costituzionale. Atene, almeno tra il Sesto e il Quarto secolo, è una democrazia piena, vale a dire per i Greci, per Aristotele per esempio, una democrazia diretta, dove il potere legislativo è esercitato dai cittadini senza l’intermediazione di rappresentanti. I giudici sono scelti a sorte, sorteggiati. Nell’ecclesia, l’assemblea legislativa, ci sono tutti i cittadini. I quali discutono liberamente e decidono insieme, e sono essi stessi ad avere saldamente in mano l’iniziativa legislativa. Solo gli strateghi sono eletti di anno in anno. Pericle dunque è eletto, ma non i giudici che condannano Socrate a bere la cicuta.

C’è poi l’istituto del graphe paranomon (γραφή παρανόμων), che permette ad ogni cittadino di portare in giudizio qualunque altro cittadino che a suo parere abbia proposto all’assemblea o fatto votare una legge “illegale”. Le magistrature alla scadenza della carica devono rendere conto dinanzi a tribunali del loro mandato. E poi c’è l’ostracismo, meccanismo costituzionale temutissimo, per cui l’assemblea può votare l’espulsione dalla città di un cittadino che si ritenga troppo prominente o potente o ricco, tale da eccellere troppo sulla robusta ed aurea mediocrità dei membri dell’assemblea. È quello che, tra l’altro, ricorda anche Aristotele. Non ci devono essere “cavalieri” e “duci” che per la loro ambizione o ricchezza possano pensare di primeggiare sull’uomo medio della città democratica. La guerra in questo contesto è decisa dall’assemblea. Significa allora che Atene abbia rinunciato alla guerra? Avviene proprio il contrario.

La guerra del Peloponneso di Tucidide è un libro avvincente. Sorprende ancora oggi la vasta tessitura della sua narrazione. Ora, come nelle storie dell’Antichità, più che una sequenza di fatti, qui si presenta una successione di discorsi. A riprova di quanto i fatti sociali siano diversi dai meri fatti empirici, a dispetto di tutto lo scientismo sempre rinascente della epistemologia moderna. Nella narrativa di Tucidide non si “naturalizza” nulla. E sì un opus magnum del realismo nelle relazioni internazionali. Lo sguardo è disincantato. Non c’è telos o fine della storia in quelle pagine. La presentazione della guerra è cruda. Cruda è anche la prospettiva che si ha delle relazioni tra Stati, tra poleis che competono per l’egemonia del mondo ellenico e più in generale del Mediterraneo. Ma il tessuto dei fatti si intreccia ai discorsi che preparano quei fatti o che poi raccontano e celebrano le imprese belliche. Gli argomenti giustificano e danno senso alle condotte.

Così la guerra che Atene dichiara a Sparta e poi l’avventura contro Siracusa, la sfortunata spedizione navale per l’invasione della Sicilia, si radicano in parole. Di queste le più significative nel testo e in tutta la storia sono quelle pronunciate da Pericle. L’uomo politico ateniese, ripetutamente rieletto stratego, pronuncia, secondo la narrazione di Tucidide, tre discorsi. Il primo è per convincere alla guerra, il secondo è quello celeberrimo dell’orazione funebre per i caduti in guerra, documento eccezionale, il testo più intenso e importante che ci rimane di giustificazione della democrazia antica greca. Non abbiamo molto altro di “democratico” in ciò che ci è stato tramandato.

Platone è un oligarca, e Aristotele un monarchico. Certo, le loro pagine rispecchiano una cultura ed una civiltà tanto profondamente democratica che rimbalza in ciò che affermano, spesso più forte delle loro intenzioni antidemocratiche. Nel dialogo omonimo Protagora risulta più convincente di Socrate. Il capitolo terzo della Politica di Aristotele è un sommario di teoria democratica per ciò che della cittadinanza ateniese ci racconta. Ma il manifesto del pensiero democratico è nel secondo discorso di Pericle che si ritrova. Dove, tra l’altro, vediamo sfatata la vulgata che vorrebbe opporre la libertà positiva degli Antichi, la partecipazione alla cosa pubblica, alla libertà negativa, quella privata dei Moderni, secondo la nota contrapposizione di Benjamin Constant, poi ripresa mille volte e divenuta un luogo comune della teoria politica. E invece no. Pericle ci dice che ad Atene ciascuno può vivere come meglio crede, e che gli altri cittadini devono astenersi dall’infrangere i limiti della privatezza individuale.

Vi è poi un terzo discorso di Pericle. Lo pronuncia mentre infuria la peste nella città, peste di cui lui stesso sarà, di lì a poco, una delle tante vittime. Qui l’uomo di Stato esorta i cittadini a non abbattersi, a rimanere fermi, a non arrendersi. E li incita a continuare nell’impresa bellica. Ora in questi discorsi, ma soprattutto nel primo e nel terzo, è questione del rapporto tra democrazia e guerra. Questo risulta ovvio se solo si ricordi che la struttura militare della città è fornita dagli opliti, e questi sono i cittadini in armi. Ciascuno è padrone del proprio equipaggiamento militare e di questo deve curarsi. La battaglia è innanzitutto uno scontro di fanterie, di opliti, di cittadini. La cavalleria vi gioca un ruolo secondario. E poi c’è la flotta, e qui domina il popolo minuto, che non possiede nemmeno una lancia e un’armatura, e può dare alla città solo la forza delle braccia, quella che serve a far navigare le triremi.

È la marina la grande forza militare di Atene – lo ripete sempre lo stesso Pericle, che in tal modo rivendica la supremazia su Sparta. È il dominio dei mari che assicura la vittoria. Ma tale dominio è a sua volta garantito dalla forza lavoro dei, diciamo così, proletari, dei poveri. Per lo Pseudo-Senofonte il regime degli Ateniesi si caratterizza come il governo dei “naviganti”, “ekpleontes”, dei miserabili dunque. Ed allora si dirà (lo dice a Pericle Alcibiade in un dialoghetto riportato nei Memorabilia di Senofonte) che la democrazia più che governo del popolo, è governo dei poveri, per il giovane Alcibiade ritratto da Senofonte una sorta di dittatura del proletariato. Sono loro, i proletari, sulle navi, la città democratica. Tanto è così che quando successivamente Sparta con i Trenta Tiranni s’impadronirà della città, delle sue mura, la flotta prende il largo, ancorando in un’altra sponda. Ed è tale flotta che pretende di essere la città vera. Che non è – lo scrive ancora Tucidide –, né le sue mura né le sue case, ma la sua gente.

Ma che dice Pericle? Dice tante cose, certo. Ma per ciò che qui ci riguarda dice questo che riassumo. Inizia affermando che «la democrazia è impotente al governo di un impero» (III, 37), o così pare. Ma Atene esercita un impero. Ora, «il vostro impero, di fatto, è una tirannide» (II, 63). Le città alleate sono in realtà degli Stati vassalli. E rispetto ad essi non valgono i princìpi di giustizia ma i rapporti di forza. Questa idea sarà poi tragicamente ribadita dagli Ateniesi nel famoso discorso che i loro ambasciatori dirigono ai rappresentanti di Melo. Melo è assediata; è un’alleata di Sparta. Ora Atene esige che cambi fronte. Che si dichiari dalla parte di Atene, dunque suddita di questa. Ma i Meli vogliono difendere la loro autonomia. Così che gli Ateniesi li assediano e vogliono costringerli alla resa. E dicono loro: «Rifulge per noi il diritto all’impero». D’altra parte, continuano, «i concetti della giustizia affiorano e assumono corpo nel linguaggio degli uomini quando la bilancia della necessità sta sospesa in equilibrio tra due forze pari. Se no, a seconda; i più potenti agiscono, i deboli si flettono» (V, 89). «Riteniamo infatti che nel cosmo divino, come in quello umano (vale l’opinione per il primo, ma per l’altro è una sicurezza nitida), urga eterno, trionfante, radicato nel senso stesso della natura, un impulso a dominare, ovunque s’imponga la propria forza» (V,105).

Così, se dentro la città i rapporti tra soggetti possono essere riformati nel senso di trasformare la forza individuale in potere pubblico, tale da potere concepire l’alternanza tra governare ed essere governati (ed in ciò secondo Aristotele, sappiamo, consiste la cittadinanza e la stessa politica), tale alternanza è impossibile fuori dalla città, nella quale si è potuta affermare una dimensione comune di giustizia. Se la democrazia è fattibile, ed è giusta, nella sfera politica, ciò non vale nella sfera sovra-politica, che è quella delle relazioni, diciamo così, tra città o nazioni o popoli distinti. Qui regge solo la forza. Ma tra le due dimensioni (quella fattuale, e l’altra normativa) vi è una relazione essenziale.

La dimensione politica è possibile là dove la norma alla città sia data dalla città stessa. Ciò presuppone però non solo che non vi sia potere all’interno della città da manifestarsi come dominante ed egemonico, ma che tale assenza di egemonia deve darsi anche fuori dalla città. Una polis che è vassalla di un’altra città sarà democratica solo di nome, ma in realtà sarà suddita di una tirannide. Ora, poiché nell’ordine sovra-politico, non può darsi parità di potere, perché non vi è una città di città, la realtà è che qui o si domina o si è dominati. L’alternanza non può darsi, giacché non vi sono istituzioni comuni né un ethos condiviso, una forma di vita, che la garantiscano. Ciò equivale a dire che una democrazia per essere tale deve essere anche potere egemone, deve poter dominare sulle altre entità politiche che la circondano. Altrimenti si farà di questa suddita, e la sua democrazia non sarà che una finzione. Ma come si assicura il dominio esterno alla città? Con la guerra.

III.

Se dunque democrazia, impero e guerra non sono tra loro storicamente ed idealtipicamente incompatibili faremmo bene a riconsiderare sotto altro punto di vista l’attuale panorama delle relazioni internazionali. Questo è ora dominato, una volta di più, da un discorso bellicista. L’idea e la prospettiva della guerra, una volta tabù, almeno nel consesso egli Stati europei pacificati dopo la Seconda guerra mondiale, viene di nuovo rimessa in campo. È una piaga suppurata. Certo, l’infezione pare provenire, e di fatto proviene, dal conflitto ucraino, e dall’invasione russa che lo ha provocato. Ma la malattia è più risalente ed ha che fare con l’egemonia mondiale e con la lotta per ottenerlo.

Il 1989, la caduta del muro di Berlino, sancisce la fine del mondo bipolare. Se identifichiamo gli Stati Uniti con Atene, e l’Unione Sovietica con Sparta, e la guerra fredda con una specie di silente o sotterranea guerra del Peloponneso, questa volta è Atene che vince. E Atene, gli Stati Uniti qui, sono una democrazia, o qualcosa del genere. Ha vinto dunque la democrazia nelle relazioni internazionali?

Finché durava la Guerra fredda si parlava di un mondo bipolare. Le due potenze si guardavano in cagnesco. Ma si temevano e si rispettavano. L’Unione Sovietica ci pareva eterna, e solidissima. Il suo crollo trasforma le relazioni internazionali in maniera drammatica e dà agli Stati Uniti una supremazia assoluta. Il mondo si fa unipolare. E la Russia, ora ridotta entro i confini del 1918 dopo il trattato di Brest-Litovsk con gli Imperi centrali, non è più temuta. Né rispettata. Una volta caduto l’impero sovietico la Nato, l’alleanza atlantica militare, parrebbe non avere più nessun ruolo. Perché dovrebbe sussistere una volta che è stato smantellato il campo avversario? E invece no. Ed anzi la si potenzia, la sia allarga.

In una intervista della metà degli anni Novanta, Kissinger, il grande artefice della politica estera americana negli anni Settanta, consigliere di Nixon, eminenza grigia dell’imperialismo americano, colui che sembra aver minacciato Moro nella sua ultima visita a Washington intimandogli di non avvicinarsi troppo al Partito Comunista, il “grande vecchio” insomma delle relazioni internazionali nell’ottica statunitense, raccomanda decisamente l’allargamento della Nato fino alle frontiere della Russia. A dispetto dell’assicurazione, che nel 1990 si dà a Gorbačëv, che l’alleanza non si ingrandirà nemmeno di un metro, “not one inch more”, se l’Unione Sovietica consente alla riunificazione della Germania. Altrimenti, sostiene Kissinger, si avrebbero in Europa due tipi di frontiere, un tipo con garanzia militare, ed un altro senza questa garanzia, vale a dire si lascerebbe una zona neutrale aperta al gioco di potere di Russia e Germania.

Significativo è qui il riferimento alla Germania, che si teme possa nuovamente giocare il ruolo di grande potenza, almeno regionale, europea. E non lo si vuole. Come si vuole controllare qualunque tentativo russo di recuperare un ruolo indipendente e significativo nella politica estera mondiale. Duque mantenere la Nato, ed anzi allargarla, servirà a questo, a tenere bassa la testa alla Germania, ed a ricordare alla Russia la sua disfatta epocale, perpetuandola, anzi rendendola un fatto permanente. Tutto ciò ovviamente ha poco a che vedere con lo Stato di diritto o la democrazia. Tanto più che per un momento la Russia, Putin, non esclude di entrare a far parte della Nato stessa.

È il gioco dell’Impero che qui si riproduce. L’ambizione imperiale, del resto, è presente nella storia statunitense ab initio, già nella Dottrina Monroe, che stabilisce una zona di non ingerenza nei due continenti americani diretta dal governo degli Stati Uniti. Poi c’è la guerra contro la Spagna del 1898, una guerra facile e rapida per gli Yankee che si sbarazzano in quattro e quattr’otto della declinante e fatiscente presenza imperiale spagnola nell’Atlantico e nel Pacifico. Si invadono Puerto Rico, Cuba, e le Filippine. D’altra parte, la guerra di secessione viene combattuta dal Nord soprattutto perché, se la Confederazione si fosse stabilita, l’Unione sarebbe stata seriamente ridimensionata e degradata da emergente potenza imperiale a Stato federale regionale.

Ora, anche Israele è una democrazia o qualcosa del genere. E il suo rapporto con la guerra è consustanziale. Lo Stato d’Israele nasce con la guerra, il suo “momento costituzionale” è la guerra con cui nel 1948 sbaraglia gli Stati arabi vicini che contestano la divisione della Palestina decisa dalle Nazioni Unite. E Israele vincendo occupa una porzione di territorio ben più vasta di quella originariamente concessa dall’ONU. Si espellono centinaia di miglia di Palestinesi dalla loro terra, dalle loro città, dai paesi che si distruggono. È quello che in Palestina si chiama la Nakba, la “catastrofe”. Gli abitanti di Gaza oggi, quelli sopravvissuti allo sterminio quotidiano operato in quest’ultimo anno dall’esercito israeliano, sono i discendenti di coloro che furono cacciati dalle loro case nel 1948. Dunque, Israele è una democrazia, o qualcosa del genere. Ma il suo momento costituzionale è la guerra. Un po’ come quello che avvenne alla Germania prussiana nel 1871, che unifica il territorio grazie al trionfo militare sulla Francia di Napoleone III.

Per certi versi si potrebbe allora sostenere che Israele è l’ultimo Stato prussiano. La sua classe dirigente, come accadeva in Germania, è in gran parte offerta dall’esercito. I suoi cittadini sono tuti soldati con ottimo addestramento e pronti a combattere in ogni momento. Ricorda la Germania del Secondo Reich anche l’ideologia del Blut und Boden, che è il succo del sionismo, il movimento fondatore dello Stato ebreo. Questo è diretto da una politica che si riferisce ad una mitica missione rifondatrice del popolo ebreo, produttrice dell’“Ebreo nuovo”, missione con evidenti implicazioni coloniali, e con un fortissimo retroterra messianico. Nazionalismo, etnicismo, colonialismo, millenarismo: la miscela qui è esplosiva. La guerra è, direi, necessariamente il suo esito, anche perché in tale Stato e nella sua ideologia v’è un netto impeto espansionista, e la pretesa all’egemonia sulla regione.

Ciò è confermato dall’occupazione di Gaza e della Cisgiordania dopo la guerra dei sei giorni nel 1967. E quanto sta succedendo ora, lo stillicidio quotidiano di bombardamenti ed uccisioni di massa, tra Gaza, Cisgiordania, Libano e Siria ne è la prova provata. Se questo non è genocidio, è di certo qualcosa che vi è molto vicino.

Dobbiamo allora, ed è questo il “o μύθος δελοι οτι” di queste paginette, dobbiamo rinunciare, e lo facciamo pure a malincuore, a credere che tra democrazia e guerra vi sia un’opposizione essenziale o sostanziale. Può essere, ed è stato, invece il contrario.

Ciò mi pare anche confermato dai venti e spiriti bellicisti che si agitano all’interno dell’Unione Europea. Questa, rispetto alla guerra in Ucraina, usa toni acuti e investe in termini di reputazione e di ideologia ben più di quanto facciano gli Stati Uniti. La guerra in Ucraina la si concepisce a Bruxelles, ma anche nelle cancellerie di Berlino e Parigi, per non parlare di quelle di Varsavia e Tallinn, come un confronto in cui è in gioco la stessa esistenza dell’Unione. Sono i valori europei in questione, si afferma ripetutamente. Il sospetto è che tale guerra possa essere utilizzata come quel “momento costituente” che ancora manca alla legittimità costituzionale dell’Unione.

E così si spinge per la continuazione della guerra, ad ogni costo, “whatever it takes”, frase divenuta un luogo comune nelle labbra della inconsistente classe politica europea. Nessun compromesso, o negoziato, nessuna tregua o cessate il fuoco. Guerra ad oltranza. In difesa della democrazia?

E là dove alla guerra si voglia porre fine, o almeno aprire alla possibilità d’una fine, a tale prospettiva, l’Europa reagisce con preoccupazione. Ancora una volta è l’America che pare risolvere la crisi, dopo averla alimentata e forse voluta. La tregua è proposta dall’impero transatlantico. L’Unione Europea, presa nella trappola della retorica bellicista, non riesce a trarsene fuori e così con una fuga in avanti spinge per il riarmo degli Stati membri. Lo “Spirito di Ventotene” e il federalismo socialista di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi vengono rievocati per convincere il disorientato cittadino europeo a riprendere eventualmente uniforme ed elmetto. V’è il nemico alle porte, ed è lì nella pianura di Poltava che si gioca il definitivo salto federale europeo. Chissà che Carl Schmitt non avesse ragione e che la “politica” non sia altro che la dialettica di “amico” e “nemico”. Ci vuole un nemico e la paura ch’esso produce, perché si dia l’amico ed una comunità. Va vissuta la minaccia esterna, affinché si produca la necessaria interna compattezza. È la sfiducia per il nemico che ci offre la fiducia per l’amico. La Commissione europea e con essa qualche cancelleria del Vecchio continente sembrano sperarlo. Si apre così dinanzi a noi un orizzonte di sfiducia, se non di spavento.

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