DI MASSIMO LA TORRE
I.
Ho scritto il mio primo libro a dodici anni. Era la fine di giugno del 1967. Avevo appena superato gli esami di scuola media inferiore. E dinanzi avevo tutta l’estate libera fino ai primi d’ottobre, quando avrei cominciato a frequentare il ginnasio. Cosa che feci puntualmente e in pantaloni corti. Ricordo bene quell’estate e quel tempo in cui con molto materiale raccolto, pile di quotidiani, mi misi a scrivere una cronaca della guerra dei sei giorni tra Israele e Egitto, Siria e Giordania. Il risultato furono sette quaderni scritti fitti a mano, poi persi durante un trasloco. La narrativa, centrata nella conduzione della guerra da un punto di vista di storia militare, era basata sulle notizie di stampa raccolte e si svolgeva da una prospettiva prevalentemente filoisraeliana.
Israele mi pareva lo Stato aggredito e minacciato che aveva reagito con forza e secondo giustizia. E poi in maniera folgorante sconfiggendo in pochi giorni tre eserciti nemici. Una certa simpatia rivolgevo anche al re di Giordania, giovane capo di Stato che mi pareva trascinato suo malgrado nella guerra da Nasser, il presidente egiziano, e da Hussein, il leader siriano. Il mio eroe era Moshe Dayan, colla benda all’occhio, una sorta di pirata e di volpe del deserto, e con lui eroi mi sembravano i soldati israeliani, dalle uniformi impeccabili, decisi, coraggiosi. In realtà le foto che ci pervenivano erano quasi solo dalla parte israeliana, e così anche le notizie alla televisione che manifestavano una netta parzialità a favore dello Stato ebraico. Io dei Palestinesi non avevo percezione, in quella storia parevano non entrarci affatto. Si trattava di Israele e degli Stati arabi che la circondavano minacciosi. Nient’altro. Nel 1967 in quella guerra Israele non solo non fu sconfitto né perse alcun territorio, ma ne occupò di altri e decisivi. Tutta la parte occidentale della Giordania, le alture del Golan della Siria, e la striscia di Gaza e il Sinai che appartenevano all’Egitto.
Cinquantasette anni dopo fondamentalmente la situazione non è cambiata. Gaza, Gerusalemme orientale e la riva occidentale del Giordano, e ancora le alture del Golan, rimangono ferreamente sotto il controllo di Israele. Nel frattempo ci sono state nell’autunno del 1973 la guerra del Yom Kippur, nella quale Israele potette prevalere sull’attacco a sorpresa dell’Egitto grazie anche al massiccio aiuto statunitense, nel 1977 la vittoria del Likud, partito di estrema destra fondato da Menachem Begin (aborrito da Hannah Arendt)[1] il quale si rifà al parafascista Jabotinsky (aborrito da Joseph Roth)[2], nel 1982 l’invasione del Libano (Operazione “Pace in Galilea”) da parte di Begin, l’assedio di Beirut, e la strage di Sabra e Shatila compiuta dai fascisti maroniti con la cooperazione dell’esercito israeliano guidato dal generale Sharon[3]. Poi rispettivamente nel 1987 e nel 200o due rivolte palestinesi, la prima e la seconda intifada, represse nel sangue, nel 1993 gli accordi di Oslo tra Arafat, leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, e Yitzhak Rabin, primo ministro laburista d’Israele, e il successivo assassinio di Rabin da parte di un colono aizzato dalla propaganda ultranazionalista sviluppata da Netanyahu. Infine, questi ultimi quindici interminabili anni di governo di Netanyahu, che sparge odio e compone esecutivi con la parte più fascista del sionismo revisionista, allagando di nuovi insediamenti e coloni la Cisgiordania, e strozzando la striscia di Gaza, privata della possibilità d’ogni libero movimento, un ghetto circondato di filo spinato e sottoposto a controlli vessatori, ed a periodiche rappresaglie.
Gli accordi di Oslo sono resi impossibili dallo stesso leader massimo israeliano, invero ripetutamente confermato dagli elettori, politico corrotto che infine cerca anche di modificare il sistema politico israeliano, quello progettato ab initio come regime democratico e Stato sociale dal padre fondatore Ben Gurion. I giudici devono ora essere resi dipendenti dall’esecutivo, la polizia del tutto governata da imperativi politici, e lo Stato d’Israele nel 2018 è definito dal parlamento, Knesset, a maggioranza di destra “stato ebreo”, senza più riferimento alla sua natura democratica. Ciò in deroga ad una precedente “legge fondamentale”[4]. Nel 1980 la capitale è dichiarata essere non più Tel Aviv, ma “unita e indivisibile” Gerusalemme, annettendola così ad Israele con un colpo di penna. Si fabbrica altresì, il mito che l’Olocausto non sia stato originariamente un’idea di Hitler, bensì del Mufti, il capo spirituale islamico di Gerusalemme negli anni Quaranta, Amin al-Husseini. Una menzogna presentata da Netanyahu sulla scia del padre, Benzion Mileikowsky, storico impegnato a ricostruire la narrativa di un Israele da sempre terra ebrea, come se per mille e più anni i palestinesi lì fossero semmai stati solo di passaggio o degli intrusi, oppure e più comodamente degli invisibili. Non invano era stato allievo di Jabotinsky.
Per giungere al punto in cui tristemente ci ritroviamo, la distruzione massiccia, implacabile, totale, minuziosamente pianificata e messa in atto, della striscia di Gaza, con quasi quarantamila morti, di cui quindicimila bambini, a partire dallo scorso ottobre, la scia di sangue è immensa, è un fiume, un torrente in piena di sangue umano, che sembra rendere ormai impossibile ogni appello all’umanità ed alla giustizia. Ma com’è stato possibile? I fatti del sette ottobre dello scorso anno, l’attacco spietato di Hamas in territorio israeliano che fa più di mille morti, di cui molti civili innocenti, possono veramente spiegare il dramma in atto? Come si è potuto arrivare a ciò?
II.
Un inizio si ha nella seconda metà dell’Ottocento, epoca di imperialismi rinnovati ed aggressivi (la Germania che si prende delle colonie africane e ne stermina le popolazioni indigene), e di riacceso nazionalismo. Il Congo è di proprietà del re Leopoldo del Belgio, proprietà sua privata, e lì il colonialismo europeo celebra i suoi trionfi e la sua infamia. “Orrore, orrore” –sono le ultime parole di Kurtz, il protagonista vero di Cuore di tenebra di Joseph Conrad. “Cuore di tenebra”, dunque, l’Europa di fine Ottocento, che si crogiola nel suo imperialismo e libera i mostri che la condurranno al suicidio della Grande Guerra. Sono questi anche gli anni in cui si conia l’idea e la formula del Lebensraum, vale a dire di una nazione trasformata in entità organica, biopolitica che abbisogna di un territorio come dell’aria per respirare, uno “spazio vitale” in cui poter liberare le proprie energie, ed espanderle[5]. Di maniera che i confini di questo spazio non sono predeterminati, ma si spostano a seconda della forza del popolo che abbisogna d’esso e se ne appropria. Ora, tale formula giustifica tanto il colonialismo europeo in Africa, quanto il Drang nach Osten, la marcia verso Oriente del nazionalismo pangermanico.
Nazionalismo e il suo Mr. Hyde, il suo “doppio” perverso e oscuro, ovvero il ritratto orrido dello splendido all’apparenza Dorian Gray, cioè il razzismo si manifestano con forza specialmente in quella turbolenta parte d’Europa che va da San Pietroburgo a Berlino, passando per Vienna e gli esplosivi Balcani. Si tratta di una parte d’Europa in cui le lingue e le etnie e le tradizioni i mischiano e si intrecciano in modo quasi inestricabile. A Praga si parla il più puro tedesco, ma anche e soprattutto ceco, e poi l’yiddish della minoranza di religione israelita. Una simile combinazione si dà quasi dappertutto in quelle regioni. A Tallinn, che allora si chiama ancora Reval, si parla tedesco, russo ed estone. All’università di Tartu, che si chiama anche Dorpat, nell’Estonia meridionale si insegna in tedesco. Ma il nazionalismo non accetta il pluralismo linguistico e la convivenza. E poi ci sono gli Ebrei da sempre discriminati, se non odiati, sottoposti a vessazioni, e qualche volta, periodicamente, a dei pogrom, delle uccisioni di massa, dalla Boemia alla Russia bianca. Anche per questa popolazione si tratta allora di rivendicare una propria identità forte e un’eguale dignità rispetto alle altre religioni e culture. Ed è qui, in questo contesto, che sorge l’idea sionista, una mimesi dei vari nazionalismi, in particolare di quello tedesco. Si tratta in gran parte di una reazione alla crescente insicurezza e debolezza civica delle composite comunità ebraiche europee. È certo infatti che il sorgere del sionismo è coevo al manifestarsi d’un antisemitismo politico particolarmente aggressivo e ideologizzato, di cui la prima cattiva, potente eruzione è l’affare Dreyfus, che sconvolge e inonda di veleno razzista la vita politica francese[6].
L’idea è di fare della diaspora un residuo superato del passato. È il rifiuto di integrarsi nelle varie nazioni in cui ci si trova ad abitate da secoli e di cui si parla anche la lingua, ma nelle quali si è ancora considerati soggetti inferiori, cittadini di seconda classe. Si vuole vare una patria vera. E lo si fa mobilitando la storia religiosa e il mito della terra promessa. Si risuscita allora una lingua comune, non l’yiddish, ritenuto un qualche modo erede d’una vicenda di sottomissione e di vergogna. Si vuole riparlare l’antica lingua ebrea, magari riaggiornata e semplificata, al fine di fare degli Ebrei una nazione vera e coesa[7], e finalmente con una terra propria. L’errare deve avere una fine. L’esodo deve darsi una meta. Si rivendica una patria, un suolo, un proprio “spazio vitale”.
Ma quale spazio? E qui si apre un dibattito. Theodor Herzl, il padre fondatore del movimento, non punta necessariamente al ritorno in terra santa, in Israele. Altre possibilità sono considerate. Tuttavia, la scelta per la statualità della rinascita dells nazione è già presa da Herzl nella sua opera più influente, Der Judenstat[8], che è del 1897. Dunque, vince il sionismo “politico”, e comincia già a partire da fine Ottocento una ondata di colonizzazione di terre in Palestina, che è abitata con schiacciante predominanza da popolazioni arabe e di religione islamica. La parola d’ordine del sionismo è: una terra senza popolo per un popolo senza terra. Ma in Palestina c’è già un popolo[9].
E subito la convivenza tra il colono ebreo che considera ora quella la sua patria, e l’autoctono arabo che considera quegli Europei così colti e civili una razza estrania alla loro esperienza comunitaria. Va anche a questo proposito ricordato che per Herzl il nuovo Israele deve darsi come un baluardo di civiltà europea in un continente asiatico dominato da culture arretrate ed in buona sostanza incivili. Il sionismo dunque sin dal principio è mosso da un pregiudizio “orientalista”[10], per cui l’asiatico rimane ancora una sorta di barbaro. La colonizzazione della Palestina è allora un’opera non solo di emancipazione d’un popolo discriminato e vessato, ma anche un’impresa civilizzatrice. E così lo scontro tra i coloni sionisti e i palestinesi si dà quasi subito. Testimonianza ne è per esempio un bel romanzo di Arnold Zweig, De Vriendt kehrt heim, del 1932, dove comunque il sionismo ultranazionalista è severamente giudicato. De resto, come potrebbe negarsi diritto all’ostilità della comunità palestinese rispetto alla “ripresa” di una terra che invero è tutt’altro che disabitata? Così scrive Amos Oz in uno dei suoi più bei romanzi, Giuda: <<Perché mai pensa che gli arabi non abbiano diritto di opporsi con tutte le forze a degli estranei arrivati improvvisamente qui come da un altro pianeta, che gli hanno preso la terra, campi e paesi e città, tombe dei loro avi e eredità dei loro figli?>>[11]
III.
Un altro inizio è la dissoluzione dell’Impero turco dopo la Prima guerra mondiale. Al movimento sionista gli Inglesi che si prendono l’amministrazione della Palestina occupata dalle truppe britanniche dopo il crollo dell’Impero ottomano[12], ai sionisti i Britannici promettono una patria (“a national home”) proprio lì in Palestina e questo, com’è noto, avviene con la Dichiarazione di Lord Balfour del 2 novembre 1917 (sessantasette parole)—Balfour era il Ministro egli Esteri della Gran Bretagna. Dunque, a partire da quel momento l’emigrazione si accelera, si creano delle strutture di produzione economica gestite dal movimento. Va anche ricordato che il sionismo a quel tempo è maggioritariamente di orientamento socialista[13], anche se sionista non è il Bund ebraico attivo nell’Est europeo, specialmente in Polonia e in Galizia. Il ritorno si colora così del carattere dell’utopia, della società nuova, e l’Ebreo che lì emigra sarà un “uomo nuovo”, il quale ricomincia d’accapo, che fonda una nuova comunità di uguali e liberi.
Vi è perfino un sionismo che è intriso di valori libertari, prossimo all’anarchismo. Di questo l’espressione più nobile è quella di Martin Buber, oppure di Abba Gordin, ma si potrebbe menzionare anche Kafka, e traccia di questa tradizione si ritrova negli scritti di Hannah Arendt. Buber è l’amico di Gustav Landauer[14], l’anarchico ministro della Repubblica bavarese dei consigli, martirizzato dai Freikorps protonazisti, una soldataglia che nella primavera del 1919 occupa Monaco e soffoca nel sangue il movimento operaio. I kibbutzim si proiettano in prima battuta come comunità alternative libertarie, autogestite, e rette dal principio “a ciascuno secondo i propri bisogni da ciascuno secondo le proprie capacità”. Ma fino alla Seconda guerra mondiale le comunità ebraiche non sono maggioritariamente orientate al progetto sionista.
Il padre di Hans nel romanzo Reunion, L’amico ritrovato, di Fred Uhlman scaccia di casa il giovane sionista che bussa alla porta per chiedere un contributo alla causa. E colui, che dell’ebraismo europeo orientale, quello dello shtetl, è il gran cantore in quello splendido libro che è Ebrei erranti, Juden auf Wanderschaft del 1927, e nel romanzo Giobbe, del 1930, Joseph Roth, è rispetto al sionismo freddo e distante – come ci narra anche Soma Morgenstern, l’amico fedele. L’essere umano –ricorda Roth ai sionisti – non è un albero, che ha bisogno di terra[15]. Gli uomini sono fatti per andare, per muoversi da un luogo ad un altro; l’esodo è il loro destino, come lo è la diaspora per l’Ebreo. Le radici dell’essere umano non sono nella terra, bensì nella ricerca del giusto. E negare l’errare significherebbe togliere all’ebraismo la sua specificità.
Un terzo inizio è il dramma che attende gli scampati all’Olocausto, la festa di Satana messa in opera dal fascismo europeo durante il secondo conflitto mondiale. Gli scampati allo sterminio, alla Shoah, esitano a tornare in quelle città e paesi da cui sono stati deportati nell’indifferenza generale, se non anche grazie alla collaborazione attiva della cittadinanza. Non si riconoscono più in quei luoghi, che evocano loro solo dolore. Chi prova a tornare, per esempio in Polonia, si trova le case occupate da sconosciuti, e un’atmosfera di sospetto e rifiuto. L’esodo verso la Palestina pare allora la soluzione corretta per trovare una nuova patria, e protezione in una rinnovata comunità. Il progetto sionista è in questo momento che trova legittimità e generale adesione. Ed è su ciò, sull’esodo e la protezione che scaccia la possibilità di un ulteriore olocausto, che lo Stato d’Israele costruisce e fonda la propria giustificazione nazionale ed internazionale.
Ma l’esodo produce drammaticamente un diverso esodo. I perdenti che diventano vincitori risospingono nell’esilio i nuovi perdenti. Èquanto avviene con la fondazione dello Stato d’Israele che si dà con una guerra vittoriosa contro gli Stati arabi che non accettano la spartizione della Palestina secondo una risoluzione delle Nazioni Unite. Nel 1948 l’esercito sionista stravince e va ben oltre i confini assegnati ad Israele dall’ONU. Si prende tutta la parte occidentale della Palestina. Ma per far questo bisogna terrorizzare e scacciare dai loro territori i residenti palestinesi, impadronirsi delle loro città e paesi, producendo una enorme massa d’esiliati e rifugiati[16]. È la Nakba, di cui ancora si piange nella Palestina araba[17], ed è la fine di un mondo, travolto dallo stabilirsi dello Stato d’Israele. Vi è qui un’ingiustizia primigenia, una violenza del principio, la cui ombra tristissima copre ancora oggi la storia dell’Israele sionista. Subito dopo la fondazione dello Stato ebraico Martin Buber non può tacere la sua grande delusione e il sentimento d’una sconfitta: <<Si dice che è stato raggiunto un fine. Un fine è stato realizzato, ma non è Sion. Non è ciò per cui un tempo s’era attivato il desiderio struggente della salvezza d’Israele>>[18].
Dal 1949 in avanti lo Stato d’Israele si consolida. Dà protezione, almeno così pare, ai rifugiati ebrei di tanta parte dell’Europa, ed attrae gli Ebrei dei paesi arabi, che accorrono in massa in quella che sembra adesso la patria antica ritrovata[19]. Ciò anche perché si intensificano le persecuzioni antiebraiche come conseguenza dell’occupazione israeliana. Comunità che avevano finora vissuto ben o male gomito a gomito, e in pace, ora devono separarsi per sempre, e forme di vita ancestrali dell’ebraismo mediorientale spariscono nel vortice del progetto sionista. Esemplare in merito è la scomparsa degli Ebrei iracheni che emigrando in Israele devono dismettere la loro specifica identità dentro il calderone di una nuova soggettività comunitaria, che ha ben poco a che vedere con quella tradizionale.
E sebbene Israele avvolga con le sue mura di protezione masse fino ad allora esposte alle persecuzioni più crudeli, la pace non pare un orizzonte stabile. Nel 1956 Nasser, il nuovo leader dell’Egitto ora repubblicano, nazionalizza il canale di Suez, finora di proprietà di società anglo-francesi. La Francia socialista e l’Inghilterra conservatrice non lo vogliono accettare e di concerto con Israele invadono il Sinai e l’Egitto[20]. Èun’ultima avventura coloniale europea, impresa di nazioni che non accettano il proprio declino di potenze imperiali. Ma gli Stati Uniti intimano a Francia e Regno Unito di desistere dall’avventura, e queste due altr’ora grandi potenze devono cedere al diktat americano. Il 1956 segna così la fine del sogno imperiale europeo una volta per tutte, e tale triste esito d’una storia centenaria accelera tra l’altro la costituzione della Comunità economica europea, concepita anche come alternativa geopolitica e commerciale allo sfruttamento delle colonie. Israele è compartecipe dell’avventura neocoloniale di Francia e Regno Unito, e si attira così una volta di più l’odio dei vicini arabi.
IV.
Infine arriva il 1967; è l’ultimo “inizio”. Potremmo chiamarlo la “fine dell’inizio”. Israele vince la guerra dei sei giorni, occupa la Cisgiordania e Gerusalemme Est, Gaza, il Sinai e le altezze del Golan, territorio siriano. L’esercito israeliano si rivela una fulminante macchina da guerra, di modo che Isaac Deutscher, commentando quei giorni di giugno, scrive:<<Paradoxically and grotesquely, the Israelis appear now in the role of the Prussians of the Middle East>>[21].
Una pace firmata con Sadat, leader egiziano, permette all’Egitto di recuperare il Sinai, dopo il tempestoso conflitto dello Yom Kippur. Ma Gerusalemme Est, le alture del Golan, Gaza, e la Cisgiordania rimangono sotto controllo israeliano. Così è ancora oggi più di cinquant’anni dopo, nonostante le risoluzioni delle Nazioni Unite di condanna dell’occupazione israeliana. Gaza e la Cisgiordania vengono progressivamente “colonizzate”. Ricoperte e cementificate dai “coloni”, in genere sionisti estremisti, etno-suprematisti, e fanatici religiosi che arrivano copiosi dagli Stati Uniti. Nel 2015 i coloni sono ritirati da Gaza da Sharon. Ma la Cisgiordania pullula di insediamenti di coloni. Di modo che la possibilità di ritornare allo status quo ante diviene praticamente impossibile. Si elevano muri invalicabili.
La struttura istituzionale d’Israele diviene quella di un regime di apartheid[22], che discrimina ed opprime la popolazione palestinese soggetta ad una serie infinita di vessazioni. Gaza, senza i coloni ebrei, diviene un ghetto, una prigione a cielo aperto, le cui frontiere sono rigidamente controllate dall’esercito israeliano. E il fronte palestinese si divide. Israele per anni finanzia per vie indirette Hamas, l’organizzazione estremista islamica che si fa egemonica nella striscia di Gaza. L’OLP di Arafat, che regge la fragilissima Autorità nazionale palestinese, è più volte attaccata, umiliata, schiacciata, resa futile, così privata intenzionalmente d’ogni prestigio agli occhi del suo stesso popolo. E l’odio cresce. Due intifade provocano migliaia di morti. Gli attacchi palestinesi sono il più delle volte ciechi, indiscriminati. E le rappresaglie israeliane sono spesso collettive. Si demolisce la casa del terrorista, secondo una punizione di carattere ancestrale, colpendone la famiglia in maniera indiscriminata. Il cecchino non si ferma davanti a un bambino. Si tortura, e si prova a rendere ciò pienamente legale. E la rappresaglia è sempre, e volutamente, sproporzionata, terribilmente eccessiva. Israele reagisce, e deve farlo –come dice il Moshe Dayan–, come un “cane rabbioso” ad ogni colpo sferrato dai Palestinesi. Se si scorre il numero degli uccisi nei due campi, vi è una sproporzione immensa a danno dei Palestinesi. Nei mesi che seguono al sette ottobre del 2023, a fronte dei circa milleduecento morti israeliani causati dall’attacco di Hamas, Gaza è rasa al suolo e le perdite, soprattutto civili, donne e bambini, arrivano alla cifra terribile di quasi quarantamila. Dinanzi a queste cifre, ed alle dichiarazioni che accompagnano il massacro, che dipingono i Palestinesi come esseri sub-umani o intrinsecamente malvagi, Amalechiti[23]—li chiama Netanyahu–, il Sud Africa si appella alla Corte Internazionale di Giustizia affinché condanni Israele per genocidio. La corte dell’Aia non dichiara l’accusa irricevibile perché infondata, riconosce il rischio di genocidio nell’operazione militare di Israele, ed emette una ordinanza intimando ad Israele di cessare l’azione armata a Rafah per non incorrere definitivamente nel reato abominevole di cui la si accusa. Infine il 19 luglio la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia dichiara che <<le politiche di insediamento di Israele violano il diritto internazionale>>, dichiarazione alla quale Netanyahu assai significativamente risponde che Israele non è potenza occupante nelle terre conquistate nel 1967, giacché quelle di Samaria e di Giudea, oltreché Gerusalemme nella sua interezza, sono parti della patria millenaria del popolo ebreo.
A questo punto è impossibile schivare due questioni su quanto è accaduto a Gaza e vi sta ancora accadendo, e si è dato sotto i nostri occhi. La reazione dell’opinione pubblica e degli intellettuali occidentali è stata tiepida. Poca indignazione in verità, sia pure con qualche notevole eccezione[24]. Molta comprensione per la condotta di Israele. Dopo il sette ottobre Ursula von der Leyen si è recata in Israele a esprimere il suo sostegno alla reazione di Netanyahu. Lo stesso hanno fatto una sfilza di politici e leaders dell’Occidente, tra cui la “nostra” Meloni, erede di un partito che di certo non si è storicamente segnalato per simpatia verso l’ebraismo. Accorre in Israele ad abbracciare Netanyahu anche il post-franchista Abascal, erede della parte più truce della destra spagnola. Molto più cauto il Sud del mondo. Dove invece è cresciuta l’indignazione per la rappresaglia permanente di Israele contro Gaza. Ora, la timidità risposta all’orrore provocato dalla distruzione sistematica di Gaza si può in parte spiegare con il sentimento di disgusto provocato dalle azioni di Hamas in territorio israeliano, molte compiute verso inermi civili. E con la simpatia per uno Stato la cui ragion d’essere è stata la salvezza degli scampati all’Olocausto, e la promessa della loro protezione.
Si pone comunque la questione, se la risposta di Israele all’attacco del sette ottobre scorso sia giustificata e proporzionata. A giudicare da quanto dicono tre delle istituzioni più autorevoli dell’ordine giuridico mondiale a tale questione non può rispondersi affermativamente. Nel maggio del 2024 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite intima la cessazione delle ostilità contro Gaza allo Stato israeliano. Ma in precedenza nel gennaio la Corte Internazionale di Giustizia aveva accolto la denuncia contro Israele, presentata, dinanzi alla corte medesima, dal Sud-Africa, accusando di genocidio lo Stato israeliano. La corte dell’Aia non ritiene manifestamente infondata ed irricevibile la denuncia sudafricana, ed intima ad Israele di non mettere in atto operazioni militari a Gaza tali da configurare per l’appunto il reato di genocidio ai danni del popolo palestinese. Infine, nel maggio del 2024 il Procuratore generale della Corte Penale Internazionale chiede alla corte medesima d‘emettere un mandato d’arresto internazionale nei confronti di Netanyahu e del suo ministro della difesa Yoav Gallant, ed altresì per tre dirigenti di Hamas in ragione d’un delitto di lesa umanità, più specificamente di “sterminio”[25]. Allo sterminio non si risponde con lo sterminio. Dunque, la “proporzionalità” della rappresaglia israeliana per gli attacchi del sette ottobre è qui messa in discussione ed anzi rigettata. D’altra parte, Israele come potenza occupante oltreché un diritto di difesa avrebbe un dovere di protezione della popolazione che subisce l’occupazione, o almeno sarebbe tenuto a bilanciare il diritto col dovere, e rendere dunque il diritto di difesa tale da potersi combinare e compensare col dovere di protezione. E che Israele sia potenza occupante è ribadito dal parere emesso dalla Corte Internazionale di Giustizia con riguardo alla politica di insediamenti nei territori di Cisgiordania, politica ritenuta in violazione del diritto internazionale.
Ma c’è una seconda questione che fa subito dopo prepotentemente capolino. Qual è il progetto di convivenza che Israele pensa di adottare rispetto alla popolazione palestinese di cui occupa le terre. L’intensione annessionistica pare evidente, e apertamente dichiarata, almeno se si prendono sul serio le reazioni del governo di Netanyahu alla decisione della Corte dell’Aia (la Corte Internazionale di Giustizia) di ritenere contraria al diritto internazionale la politica d’insediamento di sempre più numerosi coloni nelle terre prese nel 1967. Cosa fare allora della popolazione palestinese? Se ne vuole Israele sbarazzare per sempre rendendo loro la vita impossibile, umanamente insostenibile? Non ha più case quella gente, né scuole, né ospedali, non cibo, non acqua; li si bombarda permanentemente. Sfollano da un angolo all’altro della striscia di Gaza inseguiti dagli assalti del supertecnologico esercito ebreo. Li si vuole costringere all’esodo definitivo? Li si vuole più spicciamente ridurre di numero, eliminandone con la violenza una parte considerevole, e soprattutto donne e bambini, cioè il loro futuro? Si vuole fare della Cisgiordania e di Gaza una sorta di riserve indiane, destinate ad una più o meno lenta estinzione?
Come si immagina Israele, vale a dire oggi l’Israele di Netanyahu e di Benny Gantz, il vivere accanto ai Palestinesi? E –per riproporre una domanda di Gad Lerner– <<si può vivere in paradiso sapendo di avere l’inferno accanto?>>[26]. È una specie di “zona riservata”[27] lo spazio vitale che qui si progetta? Ci ritroviamo in <<un luogo –scrive Tony Judt, desolato sul presente di Israele—in cui coloni finanziati dallo stato sguazzano in piscine bordate d’erba incuranti dei bambini palestinesi che a pochi metri di distanza marciscono nei peggiori tuguri del pianeta>>[28]. Viene alla mente l’incubo di Omelas, il paese felice narrato da Ursula LeGuin, il cui benessere ha per prezzo la permanente tortura d’un bambino rinchiuso in una cella e nascosto alla vista[29].
Non significa questo un tradimento esistenziale, persino genetico, dell’ebraismo come stile di vita tendenzialmente universalistico[30], come religione messianica, o come progetto d’emancipazione umana, a favore di un’entità etnico-nazionale e suprematista? Non sarebbe questa la deviazione fatale d’una storia di giusti?[31]
[1] Si legga H. Arendt, New Palestine Party—Visit of Menachem Begin and Aims of Political Movement Discussed, ora in Ead., The Jewish Writings, a cura di J. Kohn e R. H. Feldman, Schocken Books, New York 2007, pp. 417-419.
[2] Si legga J. Roth, Juden, Judenstaat, und die “Katholiken”, in Id., Werke, Vol. 3, Das journalistische Werk 1929-1939, a cura di K. Westermann, Kopenheuer & Witsch, Köln 1991, pp. 737 ss.
[3] Cfr. M. Abitbol, Juifs et Arabes au XX siècle, Perrin, Paris 2007, pp. 212 ss.
[4] Cfr. Ch. Enderlin, Israel. L’agonie d’une démocratie, Seuil, Paris 2023.
[5]Vedi F. Ratzel, Lebensraum. Eine biogeographische Studie, H. Laupp, Tübingen 1901.
[6] Cfr. H. Arendt, The Origins of Totalitarianism, Schocken Books, New York 2004, pp. 117 ss.
[7] Cfr. Sh. Sand, The Invention of the Jewish People, II ed., Verso, London 2020.
[8] Per un’edizione più recente di questo testo vedi Th. Herzl, Der Judenstaat. Versuch einer modernen Losung der Judenfrage, Manesse Bucherei, Zurich 1996.
[9] Cfr. I. Pappe, Ten Myths about Israel, Verso, London 2017, capitolo primo e quarto.
[10] Cfr. E. W. Said, Orientalism, Penguin, London 2003.
[11] A. Oz, Giuda, trad. it. di E. Loewenthal, Feltrinelli, Milano 2014, pp. 118-119.
[12] Cfr. D. Fromkin, A Peace to End Alle Peace: The Fall of the Ottoman Empire and the Creation of the Modern Middle-East, nuova ed., St.Martin’s Press, London 2009
[13] Cfr. Lo studio di Zeev Sternhell, Aux origines d’Israel. Entre nationalisme et socialisme, Fayard, Paris 1996.
[14] Cfr. D. Di Cesare, Israele. Terra, ritorno, anarchia, Bollati Boringhieri, Torino 2014, pp. 69 ss.
[15] <<Der Mensch ist kein Baum […] Ein Mensch ist eben keine Eiche. Die Eiche ist gefangen, und der Mensch ist frei […] Beine und Füsse hat Gott dem Menschen gegeben, damit er wandere uber die Erde, die sein ist. Das Wandern ist kein Fluch, sondern ein Segen>>(J. Roth, Der Segen des ewigen Juden, in Id., Werke, Vol. 3, Das journalistische Werk 1929-1939, a cura di K. Westermann, Kopenheuer & Witsch, Köln 1991, p. 532).
[16] Per cui si legga l’intensa novella di S. Yzhar, La rabbia del vento, trad. it. di D. Padoa, Einaudi, Torino 2005, e il bel romanzo di Susan Abulhawa, Mornings in Jenin, Bloomsbury, London 2010.
[17] Elaborazioni del lutto possono definirsi le storie di due autori palestinesi: il romanzo di Adania Shibli, Minor Detail, Fitzcarraldo Editions, trad. inglese di E. Jaquette, London 2024, e i racconti di Ghassan Kanafani, Ritorno a Haifa. Umm Saad—Due storie palestinesi, a cura di I. Camera D’Afflitto, Edizioni Lavoro, Roma 2014.
[18] M. Buber, Nach der polirischen Niederlage, In Id., Ein Land und zwei Völker, a cura di P. R. Mendes-Flohr, Insel Verlag, Frankfurt am Main 1983, p. 322. Traduzione mia.
[19] Cfr. G. Bensoussan, Juifs en pays arabes: Le grand déracinment 1850-1975, Tallandier, Paris 2021.
[20] Cfr. I. Black, Enemies and Neighbours: Arabs and Jews in Palestine and Israel, 1917-2017, Penguin, London 2017, pp. 153 ss.
[21] I. Deutscher, The Israeli-Arab War. June 1967, in Id., The Non-Jewish Jew and Other Essays, Merlin Press, London 1981, p. 140.
[22] Cfr. E. W. Said, The Question of Palestine, Vintage Books, New York 1992, p. 107: <<There are Zionism and Israel for Jews, and Zionism and Israel for non-Jews. Zionism has drawn a sharp line between Jew and non-Jew; Israel built a whole system for keeping them apart, including the much admired (but completely apartheid) kibbutzim, to which no Arab has ever belonged>>.
[23] Cfr. 1Samuele, 15, 2-3 (nella versione italiana di Diodati): <<Così dice il Signore degli eserciti: Io mi son rammemorato ciò che Amalec fece ad Israele, come egli se gli oppose tra via, quando egli salì fuor di Egitto. Ora va’, e percuoti Amalec, e distruggete al modo dell’interdetto tutto ciò che è suo; e non risparmiarlo; anzi fa’ morire uomini e donne, fanciulli e bambini di poppa, buoi e pecore, cammelli ed asini>>.
[24] Tra le eccezioni vanno menzionati i contributi coraggiosi di Enzo Traverso (Gaza davanti alla storia, laterza, Roma-Bari 2024), e di Gad Lerner (Gaza. Odio e amore per Israele, Feltrinelli, Milano 2024).
[25] Cfr. D. Luban, What the ICC Prosecutor Charged – and Didn’t Charge – in Gaza Warrants, https://www.justsecurity.org/95985/icc-gaza-warrant-charges/
[26] Vedi G. Lerner, Gaza. Odio e amore per Israele, cit.
[27] Cfr. M. Amis, The Zone of Interest, Random House, London 2015.
[28] T. Judt, Prefazione, in E. W. Said, La pace possibile. Riflessioni critiche e prospettive sui rapporti israelo-palestinesi, trad. it. di A. Torchiana, Il Saggiatore, Milano 2023, pp. 20-21.
[29] Vedi U. LeGuin, The Ones Who Walk Away from Omelas, in Ead., The Wind’s Twelve Quarters, Harper & Row, New York 1975.
[30] Cfr. J. Butler, Parting Ways: Jewishness and the Critique of Zionism, Columbia University Press, New York 2012, p. 117: <<Jewishness can and must be understood as an anti-identitarian project insofar as we might even say that being a Jew implies taking-up an ethical relation to the non-Jew, and this follows from the diasporic condition of Jewishness where living in a social plural world under conditions of equality remains an ethical and political ideal>>.
[31] Per la quale può leggersi André Schwarz-Bart, Le dernier des justes, Seuil, Paris 1959.