Nelle scene finali di “A justice for all”, celebre pellicola del 1979, diretta da Norman Jewison, il protagonista, l’avvocato Arthur Kirkland, interpretato da Al Pacino, vive un terribile dramma interiore. Egli è costretto, sotto minaccia, ad assumere malvolentieri la difesa del giudice Fleming, in un processo in cui il potente magistrato è accusato di aver violentato una donna. Il pathos drammatico cresce esponenzialmente nel momento in cui Kirkland diviene pienamente consapevole della colpevolezza del suo cliente ed è violentemente scaraventato di fronte al dilemma se seguire l’etica professionale, serbando il segreto, oppure la morale di uomo “comune”, e fare giustizia. Probabilmente non è un caso che questo film, che sottolinea l’angosciante scissione morale uomo-avvocato, sia un prodotto della fine degli anni Settanta. In quel periodo, in effetti, la riflessione deontologica del dibattito americano ha conosciuto un notevole sviluppo, e lo studio dell’etica dell’avvocato non è stato più oggetto esclusivo, e quasi elitario, della filosofia morale, divenendo campo della riflessione propriamente giuridica. Ed è proprio in questo nuovo contesto di riflessione che Charles Fried, nel 1976, si domanda: «[c]an a good person be a good lawyer?»; questione che diverrà l’assillo teorico del dibattito nordamericano.