Login Contatti | RIVISTA SEMESTRALE - ISSN 2421-0730 - ANNO IX - NUMERO 2 - DICEMBRE 2023

Cosimo Marco Mazzoni. Un ultimo saluto

In Cronache
25 Febbraio 2020

DI MASSIMO LA TORRE

Nella notte di domenica 17 novembre 2019 si è spento nella sua casa di Parigi Cosimo Marco Mazzoni. Cosimo aveva 75 anni. Era nato nel 1945 a Firenze. Ed era stato professore ordinario di diritto civile all’Università di Siena fino alla pensione.

Lo conobbi a Firenze negli anni Novanta, nel periodo felice del mio insegnamento all’Istituto Universitario Europeo. Ma mi aveva contattato un po’ prima che iniziassi ad insegnare alla Badia per propormi di tradurre Robert Alexy per la sua bella collana “Giuristi stranieri d’oggi” per i tipi di Giuffrè che curava insieme all’amico Vincenzo Varano. Mi propose la Theorie der Grundrechte, ma io ero restio. Mi sembrava un lavoro enorme e poi non ero convinto che quel libro fosse il miglior modo di presentare l’autore tedesco al pubblico italiano. Così che gli feci una controproposta: perché non tradurre invece la Theorie der juristischen Argumentation, la prima opera di Alexy, e quella che aveva inaugurato una nuova pista di ricerca ed una alternativa rotta di studi, la teoria del discorso d’estrazione habermasiana applicata allo studio del diritto e in ispecie al ragionamento giuridico. Cosimo accettò, e così io cominciai un lavoro di traduzione che durò più di cinque anni.

Nel frattempo, lo incontravo sulle colline fiesolane, complice anche Luís María Díez Picazo, docente di diritto pubblico comparato alla Badia, ed inquilino di Cosimo (ed Antonella, la moglie di Cosimo) a Montececeri, sopra Fiesole, proprio la collina da cui Leonardo aveva lanciato lo sfortunato contadino a provare la sua macchina di volo. Con Luís mi vedevo quotidianamente, spesso cenavo da lui, e così inevitabilmente più d’una volta m’incrociavo con Cosimo. Con cui cominciò allora una frequentazione che si reggeva su vari interessi comuni. Ci accomunava l’amore per i libri, antichi e moderni. Era un raffinato bibliofilo. E più d’una volta mi prendeva con sé nelle sue scorribande tra antiquari e rigattieri alla ricerca di antiche e rare edizioni. La sua biblioteca è una delle più belle che abbia mai visto. Non solo per l’eleganza dei locali, ma soprattutto per i suoi fondi. Tra cui spiccano edizioni originali dell’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert, la prima edizione di De’ delitti e delle pene ancora anonima, i classici seicenteschi e settecenteschi della dottrina giuridica francese, il Dictionnaire di Pierre Bayle.

Amava la musica, ed era un assiduo frequentatore del Maggio fiorentino e del Festival di Salisburgo in Austria. Apprezzava la buona letteratura e il buon italiano. Ma parlava varie lingue, amando di queste soprattutto il francese. Innanzitutto, era una intelligenza critica, per certi versi corrosiva. Oppure, se si vuole, “monella”. La critica in lui si faceva monelleria, nella quale sgorgava abbondante l’arguzia tutta fiorentina, e poi questa si condensava nella decostruzione di idee, teorie e categorie. Aveva uno specifico interesse per temi bioetici che si espresse tra l’altro nell’organizzazione di un bel convegno alla Badia Fiesolana nel 1999, con John Finnis, Kurt Bayertz, Peter Koller, ed altri prestigiosi ricercatori. Non ho la competenza per poter adeguatamente giudicare la sua ricca produzione giuscivilistica, ma di certo ho ammirato i suoi due ultimi libri. L’uno, sul dono, Il dono è il dramma, 2016, pubblicato da Bompiani; l’altro sulla dignità umana, Quale dignità, il lungo viaggio di un’idea, 2019, per i tipi di Olschki. In queste due opere si rivela la sua forza e originalità intellettuale, oltreché la consolidata erudizione. Due “istituti” o concetti che tradizionalmente si leggono e si interpretano con occhio benevolo, positivo, sono sottoposti ad una attenta lettura critica. E allora il dono si rivela tutt’altro che un’operazione generosa e innocente, bensì una strategia di obbligazione ed imposizione, esercizio di potere ed autorità, “portatore di disgrazia”. E la dignità umana a sua volta, analizzata con scetticismo voltairiano, si presenta non tanto come posizione normativa assoluta e universale, quanto piuttosto nelle vesti di uno specifico “status”, dell’onorabilità d’una condizione privilegiata, ovvero d’un mero artificio retorico, capace anche d’occultare e nobilitare infamia e tristizia.

Nell’ultimo anno Cosimo si era impegnato con energia ad agglutinare un gruppo di amici e colleghi attorno ad un nuovo progetto culturale, una nuova collana di saggi, “Ambienti del diritto”, pubblicata dalla raffinata cura dell’editore Olschki di Firenze. Su questa nuova avventura si arrovellava e tesseva trame intellettuali. Lo sentì spesso nei suoi ultimi mesi di vita. Fu li ad accompagnarmi nella stesura finale e nella correzione delle bozze del mio ultimo libro Il diritto contro se stesso (titolo di cui fu lui l’ideatore), un saggio il mio che seguiva il suo scritto sulla dignità umana appena uscito nella nuova collana. E d’un tratto ora non posso più parlargli né ricevere da lui affettuosi rimbrotti.

Lo vidi l’ultima volta a Tallinn, in Estonia, con la moglie. C’era la neve, e tanto freddo, ma molto calore umano, e voglia di fare cose, di pensare e discutere insieme. Era contento, vivace, interessato. Si era lì per un convegno sulla cittadinanza e i diritti degli stranieri, l’“identità” (tema su cui aveva acceso i fari della sua attenzione), e lui seguiva i lavori del convegno talvolta borbottando su una relazione che gli pareva troppo carica di muffa universitaria.

In un mondo accademico e culturale sempre più omologato e conformista la sua “monelleria”, la sua insofferenza per la chiacchiera pedante e noiosa, e il suo sguardo disincantato e dissolvente sulla dimensione giuridica ci mancheranno. Come e più la sua generosità, e la curiosità quasi fanciullesca. In maniera non rimediabile ci mancheranno.

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