Login Contatti | RIVISTA SEMESTRALE - ISSN 2421-0730 - ANNO IX - NUMERO 2 - DICEMBRE 2023

Editoriale di Massimo La Torre

In Editoriale
22 Gennaio 2017

Il 2016 è stato l’anno del Brexit, il sì clamoroso dell’elettorato britannico (invero soprattutto di quello inglese) all’abbandono dell’Unione Europea promosso dal primo ministro David Cameron e violentemente voluto dalla stampa “gialla” del paese. Ma, una volta pronunciatosi l’elettorato, il governo conservatore, oltre a ripetere “Brexit means Brexit”, non riesce ad articolare molto altro. Theresa May, il primo ministro succeduto al dimissionario Cameron, ed agli intrighi di palazzo di Micheal Gove e Boris Johnson, non ha ancora un piano. La sua ambizione sarebbe riuscire ad ottenere… la moglie ubriaca e la botte piena, vale a dire rimanere nel mercato unico, ma senza la libera circolazione di persone, celebrando così un po’ l’apogeo del neoliberalismo, libertà per merci e capitali ma non per esseri umani.

È dubbio però che una tale soluzione sia accettabile, e prudente, per i 27 Stati che rimangono nell’Unione. Ché una tale formula renderebbe vincente e senza costi qualsivoglia altra tentazione secessionistica. Dunque, il mercato unico non sembra accessibile ai Britannici senza una delle quattro libertà fondamentali della “costituzione” europea. Tuttavia il Regno Unito è “fuori”, lo è anche ora ideologicamente e politicamente. La May non si siede più al banchetto ufficiale che chiude la giornata delle riunioni del Consiglio dell’Unione…

E il Brexit ha dato per così dire la stura a quell’altro Brexit d’oltreocano, la vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali statunitensi. Questa si preannuncia come un episodio che potrebbe cambiare l’ordine delle relazioni internazionali così come lo abbiamo conosciuto a partire dal 1945, nonostante lo scossone della fine dell’Unione Sovietica. In realtà noi viviamo ancora nel secolo ventesimo, almeno per ciò che riguarda la relazione strettissima di carattere geopolitico e strategico tra Europa e Stati Uniti.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale sono gli USA ad assumersi il compito di garanti della sicurezza del Vecchio Continente. Abbiamo vissuto, e viviamo, sotto l’ombrello nucleare offerto dagli Stati Uniti, e all’interno di una economia dominata dal dollaro. Ancor più dopo la fine nel 1971 degli accordi di Bretton Woods i quali pur sancendo il dominio del dollaro nondimeno lo vincolavano a un certo standard di cambio con l’oro e dunque con le altre monete europee. Liberatasi di Bretton Woods la grande nazione americana poteva gestire la sua politica monetaria in tutta autonomia, senza preoccuparsi troppo di deficit e bilance commerciali. Ciò poté consentire agli Stati Uniti di finanziare la loro costosissima guerra in Estremo Oriente e di riaffermare la propia egemonia benevolente sull’Europa occidentale .

Il nuovo Presidente, Trump, almeno a sentire le cose dette in campagna elettorale, potrebbe ora decidersi per una politica isolazionistica, alla maniera un po’ di ciò che si fece a Washington dopo la prima guerra mondiale. Si abbandonerebbe così l’Europa a se stessa, aggravandone la posizione geopolitica ed esistenziale. In ogni caso, se Washington era considerata un tempo la sede della razionalità geopolitica, ora la capitale americana– basta guardare la lista dei consiglieri e più stretti collaboratori del nuovo Presidente – sembra non poter più garantire quella expertise, e quella leadership, su cui i governi europei hanno per decenni contato come un ridotto di statesmanship. Il Novecento allora non sarebbe il “secolo breve” di cui parlava Hobsbawm, ma un secolo lungo, che si chiuderebbe proprio nel 2016 con le elezioni presidenziali americane e la vittoria di Trump.

Il 2017 si preannuncia così abbastanza incerto e turbolento. Ciò anche dovuto a vari appuntamenti elettorali. Avremo in primavera le elezioni presidenziali francesi, e in settembre le elezioni politiche generali in Germania. Senza dimenticare l’Olanda, dove il prossimo marzo si eleggerà il nuovo parlamento, con sondaggi che già dànno il partito xenofobo di Geert Wilders al quaranta per cento.

Tutto è in movimento. Ma la leadership dell’Unione sembra non curarsene, e mette la testa sotto la sabbia, alla maniera degli struzzi. Al bilancio pubblico della Grecia si rimprovera di non avere un superavit del 3,5 per cento, e il Fondo Monetario Internazionale gioca il ruolo allo stesso tempo del poliziotto buono (dice che richiedere ora quel superavit ai Greci è del tutto irrealistico) e del poliziotto cattivo (ma –dice ancora –, visto che i Greci hanno accettato l’accordo che quel superavit prevede, adesso l’accordo devono rispettarlo).

Così che l’FMI spinge per nuove “riforme”, cioè per nuovi tagli alla spesa pubblica, ed a quei minimi meccanismi di protezione sociale ancora residui nel paese ellenico. Schäuble ovviamente dice lo stesso, e fa la faccia feroce. Dijsselbloom, ora presidente dell’Eurogruppo, ripete la ricetta di Schäuble, e tenta di ripetere l’exploit di cui fu protagonista nel giugno 2015 contro Varoufakis, allorché questo venne espulso dall’Eurogruppo. È vero, c’è Draghi che un po’ punta i piedi, e si mette di traverso all’ordoliberalismo intransigente del biondo Weidemann e della Bundesbank, operando generosamente con il quantitative easing. Ma fino a quando potrà resistere? Una politica monetaria senza una politica fiscale che la sostenga sembra inevitabilmente condannata all’insuccesso.

I vincoli imposti all’Eurozona sempre più minacciano il nostro paese la cui crisi economica, con una crescita annuale del P. I. L. ben sotto lo zero, con altissimi tassi di disoccupazione, soprattutto tra i più giovani, ed un’imposizione fiscale tra le più elevate del mondo, si trascina ormai da più di un decennio. Ora, col regolamento dell’Unione Europea 806/2014 si introduce il criterio del bail in per gli istituti di credito in dissesto, scaricando sui correntisti della banca una parte ragguardevole del costo del suo salvataggio. Il panorama s’incupisce, se si tiene conto delle recenti vicissitudini del Monte dei Paschi, portato alla rovina da inconsulte strategie d’avidità del gruppo dirigente e dal complice laissez faire del governo nazionale. I nodi sembrano arrivare al pettine. E nel 2018 pare attenderci l’I.V.A. al 25 por cento, che servirà ad abbassare ancor più i consumi degli Italiani, ridotti nella loro maggioranza a pezzenti alimentati da salari e pensioni da fame. È il call center oggi l’industria fiorente del Bel Paese, ed il destino di tanti suoi giovani.

Abbiamo per più di due secoli creduto che capitalismo e democrazia fossero tra loro collegati. Che la libertà economica implicasse la libertà politica. Questa connessione però sembra essere falsificata da due decenni di sviluppo delle economie internazionali e di politiche neoliberali. Russia e Cina, e più questa che quella, sembrano offrire un nuovo modello, quello di un capitalismo senza democrazia; un modello che piace tanto ai “mercati” ed alle élites economiche, giacché sottrae il gioco della domanda e dell’offerta di beni e servizi, e del profitto che ne consegue, alle contingenze d’una politica determinata dagli umori e dai bisogni delle masse.

Vari anni fa Cornelius Castoriadis scriveva che una cosa è un capitalismo “étant forcé d’affronter une lutte continue contre le statu quo”, altra cosa un capitalismo “dont l’expansion ne rencontre aucune opposition interne effective” (Le monde morcelé, Seuil, Paris 1990, p. 27). I due regimi economici non potrebbero ricomprendersi in un medesimo “idealtipo”. Quanto avviene ed è avvenuto sotto i nostri occhi in questi anni sembra dargli ragione.

L’ordoliberalismo, insieme a Hayek, vuole già sottrarre alla politica “politicante” le leve dell’economia, fissandole ad un livello costituzionale inattingibile alla deliberazione parlamentare, possibilmente sovranazionale. Si tratta in buona sostanza della disattivazione della democrazia, vista e temuta come regime che alimenta diritti sociali “insaziabili”. Dalla disattivazione alla negazione però il passo è meno lungo, e tortuoso, di quanto possa sembrare a prima vista. È già un lungo Termidoro ciò che stiamo vivendo.

Nunc dimittis – è questa la “moderna” riforma costituzionale che l’oligarchia neoliberale ostinatamente propone alla “vecchia” e turbolenta democrazia dei partiti, dei sindacati e delle “masse”. In realtà di “moderno” in tale proposta c’è assai poco; si tratta in buona sostanza di ritornare a ciò che McIlwain chiamava il “costituzionalismo degli Antichi”, un potere politico limitato, ma senza sovranità popolare, fondamentalmente articolato nella dialettica tra gubernaculum e iurisdictio, tra potere esecutivo e giurisdizione. Ma se in quel modello medievale al Parlamento spettava ancora decidere sul bilancio dello Stato, oggi questa decisiva e “ultima” competenza gli è sottratta ed è trasferita – almeno all’interno dell’Unione Europea – all’esecutivo sovranazionale.

La spettacolarizzazione della politica e la trasposizione del dibattito politico dalla piazza allo schermo della televisione, uno spazio questo controllato pienamente dai poteri forti e dai grandi capitali, rendono acuta e sanciscono questa situazione di crisi. Trump ha vinto anche grazie alla televisione, al fatto d’essere stato il conduttore per più di vent’anni d’un reality show popolarissimo, The Apprentice. Il Brexit ha vinto anche perché tutta la stampa tabloid, quella di Murdoch, lo ha potentemente, prepotentemente, voluto. Il neoliberalismo è egemonico nella stampa e nella televisione, e la cittadinanza vi è trasformata in spettatore passivamente indotto ad attivare solo le proprie più basse passioni. Il cittadino è riprogrammato come tifoso da stadio, uno dei tanti che dagli spalti di un’arena applaudono o vituperano i gladiatori che s’affrontano in un circo nel quale, senza che la folla veramente lo percepisca, si gioca il destino di tutti.

 SCARICA IL DOCUMENTO INTEGRALE

Hai già votato!