Login Contatti | RIVISTA SEMESTRALE - ISSN 2421-0730 - ANNO IX - NUMERO 2 - DICEMBRE 2023

Editoriale di Massimo La Torre

In Editoriale
18 Febbraio 2019

Osservando la politica europea sia degli Stati nazionali sia dell’Unione Europea nel suo complesso l’impressione è che qualcosa si sia rotto o si stia rompendo. La stessa sensazione si ottiene se lo sguardo si allarga e si fissa il panorama delle relazioni internazionali nel loro complesso. Tensioni si avvertono dappertutto, conflitti più o meno dichiarati. La Russia e l’Ucraina sono sull’orlo della guerra, Cina e Stati Uniti si guardano in cagnesco e irrigidiscono le rispettive regolamentazioni sul commercio estero. La saga del Brexit nel Regno Unito sembra non essere ancora giunta ad una sua puntata conclusiva. In medio Oriente il disordine provocato dalle successive ingerenze statunitensi non si assesta, ed ora l’Arabia Saudita si profila come un attore esplicito di interventi militari.

In Africa il settentrione del grande continente è in preda ad una febbre dovuta alle mancate riforme che rimane costante, e rischia di trasformarsi in malattia mortale. L’America Latina si affida a governi neoliberali che, promettendo aumento della ricchezza però, almeno nel caso dell’Argentina, portano il paese sull’orlo della bancarotta e devono nuovamente appoggiarsi al credito del Fondo Monetario Internazionale ed alla sua occhiuta supervisione. D’altra parte sembra che l’economia internazionale, quella finanziaria, nuovamente goda di successi insperati. A Wall Street la nuova amministrazione americana inietta una buona dose d’entusiasmo ed addirittura di frenetica autoaffermazione, che però fa temere e dire che potremmo trovarci alla vigilia di una nuova bolla e di un’emergente ripetuta crisi finanziaria.

Vari trattati internazionali, tra cui quello di Parigi sulla protezione dell’ambiente, vengono denunciati come non più vincolanti dall’amministrazione statunitense. Del pari si fa saltare l’accordo sull’uso dell’energia nucleare concluso dal Presidente Obama con l’Iran. Lo stesso si vuol fare anche con trattati di non proliferazione nucleare firmati con l’Unione Sovietica, ed ancora applicabili con la Federazione Russa. L’Euro è evidentemente difettoso, mancandogli un sistema di solidarietà fiscale, ma l’Eurogruppo non riesce a procedere sulla strada di una risistemazione della struttura della moneta unica. Il disordine dunque sembra affermarsi come la nuova cifra delle relazioni internazionali.

In realtà ciò che sta accadendo, o forse ancora meglio ciò che è accaduto, è lo smantellamento dell’ordine internazionale che venne costruito all’indomani della seconda guerra mondiale. Ovviamente quell’ordine subì di fatto un primo crollo importante con la caduta del muro di Berlino nel 1989 e l’autodissoluzione, o l’estinzione, “withering away” – si direbbe in gergo marxista –, dell’Unione Sovietica nel 1991. La fine della divisione in due blocchi dava luogo ad un polo egemone, quello statunitense, con al suo fianco potenze di secondo livello, ed una periferia tumultuosa che si credeva poter governare nondimeno facilmente. Si ricordi la prima guerra del golfo del 1990, con cui gli Stati Uniti inauguravano la nuova epoca unipolare, affermando il loro diritto d’intervento in Medioriente. Si ricordi ancora la dissoluzione sanguinosa della Yugoslavia, il suo frantumarsi in una “macedonia” di staterelli, ciascuno tutelato o “adottato” da una qualche potenza europea, e poi la dissoluzione della Cecoslovacchia, il sorgere di nuovi Stati che erano prima parte dell’Unione Sovietica all’Oriente dell’Europa. Fu tutto un processo di frammentazione che si tentò in parte di controllare con l’ampliamento dell’Unione Europea che nel 2004 di colpo accoglieva nel suo senso dieci nuovi Stati membri. Si modificavano però così, in maniera che potrebbe anche definirsi “drammatica”, le sue frontiere, la sua cultura, e la sua stessa ragion d’essere, finendo anche per sconvolgere la sua “finalité”, divenuta così quasi transcontinentale, e annacquandone necessariamente il profilo sociale, mentre se accentuava allo stesso tempo la vocazione neoliberista. Nonostante tutto, almeno fino alla bancarotta di Lehman Brothers nel settembre del 2008, lo “spirito del tempo” rimaneva sostanzialmente ottimista. La “rivoluzione liberale” inaugurata dall’evidente fallimento del “socialismo reale”, se non credeva più in se stessa come “fine della storia”, si inorgogliva comunque del boom trionfale del capitale finanziario e della dissoluzione del diritto del lavoro (certificato tra l’altro nelle sentenze Laval, C-341/05, e Viking, C-438/05, della Corte Europea di Giustizia).

Ma ora la revoca della struttura delle relazioni internazionali stabilita nel 1945 pare ben più radicale. Invero il cambiamento era iniziato ben prima del 1989. Una data fondamentale in questa traiettoria è la fine degli accordi di Bretton Woods decretata da Richard Nixon nell’agosto del 1971. Come si ricorderà, quella di Bretton Woods è la prima delle iniziative di riordine delle relazioni internazionali messe in atto dal governo statunitense nella prospettiva della imminente vittoria alleata sulle potenze dell’Asse. La conferenza di Bretton Woods, una cittadina vicino Boston, viene convocata per l’estate del 1944, mentre gli Alleati non sono ancora arrivati a Parigi ed a Berlino viene soffocata nel sangue la congiura contro Hitler. Ma a Bretton Woods si parla già del dopoguerra, e si pianifica la struttura delle relazioni monetarie e commerciali tra gli Stati. Il progetto è assai ambizioso.

Si tratta in certa misura di una proiezione internazionale del New Deal. Così come con questo si era messo ordine nel mercato sregolato e ferocemente concorrenziale e senza vincoli, in particolare quello finanziario, che aveva condotto alla crisi del 1929, così si ritiene che bisogna regolare anche le fluttuazioni dei cambi delle monete e le disparità delle bilance dei pagamenti tra gli Stati, anche queste cause concorrenti del disastro economico e della miseria degli ultimi anni Venti. Si tratta di dare un nuovo assetto al gioco dei mercati e dei capitali governando innanzitutto i cambi. È questa un’idea di Keynes, rappresentante britannico alla conferenza di Bretton Woods, idea sì accolta dagli Americani, ma reinterpretata in senso egemonico o imperiale. Mentre Keynes vuole agganciare l’accordo ad una moneta internazionale “neutra” come riferimento standard per le monete nazionali, la proposta americana è quella di fare del dollaro la moneta standard, dandogli una copertura con una certa quantità d’oro, e accompagnando tale sistema con una struttura di compensazione degli inevitabili squilibri nella bilancia dei pagamenti tra Stati mediante l’istituzione del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale.

All’indomani della prima guerra mondiale vi fu un primo tentativo di sistemazione regolata delle relazioni internazionali, non più solo affidata alle virtù della diplomazia delle “nazioni civili”, secondo il modello post-napoleonico del Congresso di Vienna. Venne fondata la Società delle Nazioni, e si propose di agganciare i cambi delle monete al valore dell’oro, proposta accolta con entusiasmo dalle maggiori potenze, dunque applicata al dollaro come allo yen. Ma questa proposta di regolazione non venne accompagnata da nessun meccanismo istituzionale sovranazionale, ne tantomeno siglata da un trattato. E soprattutto essa si appoggia ad una politica economica di austerità, di contenimento radicale della spesa pubblica, dagli effetti radicalmente deflazionistici. Invero è l’austerità la prima risposta degli Stati liberali alla crisi del Ventinove secondo il paradigma adottato da Herbert Hoover, presidente americano per il quadriennio che va dal 1929 al 1933. I New Dealers, che negli anni Quaranta, dettano la politica economica degli Stati Uniti, capovolgono questo schema. Ci vuole una regolamentazione ordinata e istituzionalizzata a livello internazionale, ed all’oro si sostituisce il dollaro come standard per i cambi, ma soprattutto si lega questa riforma della finanza internazionale ad una politica economica espansiva. Lo Stato sociale viene così ancorato ad un abbastanza ben definito ordine monetario internazionale, ed agli organismi internazionali che lo sostengono.

Prima ancora di pensare alle Nazioni Unite dunque, come organizzazione internazionale che rimedi alle debolezze della fallimentare Società delle Nazioni, incapace di garantire la pace, si ritiene necessario puntare alla riorganizzazione dell’ordine delle monete e dei mercati. Al fine di eliminare il disordine delle relazioni internazionali, che si riteneva fosse stato uno dei fattori di scatenamento del secondo conflitto mondiale, gli altri tre grandi movimenti in questo grandioso progetto di riorganizzazione dell’ordine mondiale, saranno il GATT, un’organizzazione internazionale del commercio, la NATO, un’alleanza militare, e poi, e significativamente, Il Mercato comune europeo, la CEE, una unione doganale di Stati centrata su un certo regime economico di mercato.

Il primo pezzo a essere dismesso, di questa architettura, sarà la regolazione dei cambi fissata negli accordi di Bretton Woods, al fine di consentire libertà di manovra alla politica monetaria degli Stati Uniti. Si noti che la denuncia degli accordi di Bretton Woods precede la crisi petrolifera del 1973, e inaugura un’era di grandi e disordinate fluttuazioni tra le monete che provoca inflazione e recessione in vari parti del mondo. Per ciò che concerne l’Europa essa spinge verso l’egemonia del marco tedesco che risulterà già evidente alla fine degli anni Settanta, un’egemonia questa che mette costantemente a rischio l’accordo franco-tedesco che è il nocciolo duro del progetto di integrazione europea. L’idea della moneta unica europea sembra a molti la soluzione alla fine del sistema di Bretton Woods, almeno entro i confini del vecchio continente, e il meccanismo capace di ricomporre il rapporto, divenuto asimmetrico, tra le economie, e la sovranità, di Francia e Germania.

Sappiamo che la fine di Bretton Woods spinge anche verso una ridefinizione neoliberale della struttura di mercato. Moneta e capitale finanziario vengono svincolati da un progetto complessivo di società sia nazionale che internazionale. Se ne fa delle variabili indipendenti della politica economica. E nel giro di trent’anni il panorama è quello di una quasi assoluta liberalizzazione di capitali (assai significativamente il Trattato di Maastricht inserisce tra le libertà economiche quella dei capitali, estendendola anche oltre i confini dell’Unione, vale a dire facendo di tale libertà un unicum, privilegio assoluto, giacché essa vale non solo più entro i confini dell’Unione ma anche al di là di questi).

Ora, sembra essere arrivati alla destinazione finale di questo processo di smantellamento dei pilastri dell’ordine internazionale. Da parte neoconservatrice americana anche le Nazioni Unite sono costantemente criticate e messe sotto attacco. John Bolton, attuale consigliere per la sicurezza nazionale dell’amministrazione americana, è noto per le sue posizioni scettiche sulla stessa esistenza di un diritto internazionale come tale, come ordine giuridico vincolante o parzialmente vincolante. Si ricorderà Bush figlio aveva dichiarato le Convenzioni di Ginevra sul diritto umanitario non applicabili ai cosiddetti “Illegal enemy combatants”, i quali dunque potranno anche essere sottoposti a torture e trattamenti crudeli, disumani e degradanti, e detenuti indefinitamente senza alcuna garanzia di habeas corpus. L’idea che la guerra sia lecita solo se difensiva è messa più volte in forse, argomentando anche mediante un uso strumentale della nozione di diritti umani.

La normatività internazionale è resa sempre più fluida, sempre più flessibile. Lo si teorizza anche giuridicamente, come fa senza troppi complessi Eric Posner, un professore di Chicago. Ciò si accompagna ad un risorgere di ideologie o sfacciatamente imperialiste o angustamente nazionaliste, “sovraniste” – come s’usa dire oggi. In Spagna bestseller è un libro dal titolo suggestivo di Imperiofobia, dove si tessono le lodi dell’Impero statunitense e di quello spagnolo, passato alla storia ma che si vorrebbe utopicamente, e per certi versi paranoicamente, far rivivere. Ovviamente imperialismo e nazionalismo o “sovranismo” fanno a pugni tra loro, e non si capisce bene chi sia cosa. L’uno, la celebrazione dell’Impero, si rovescia subitamente e sorprendentemente nell’altro, nella affermazione della nazione omogena e “ueber alles”. Vi è però comune un motivo tra questi due atteggiamenti, ed è quello di un’ostilità crescente per le forme ordinate, normative, di regolazione delle relazioni internazionali. Ci s’immagina nuovamente un mondo di potenze in concorrenza tra loro per il predominio e l’egemonia mondiale, oppure, là dove si tratti di Stati e staterelli di modeste dimensioni, in difesa di una tutta immaginata e fantasticata compatta identità nazionale. Un argomento a supporto di questo moto “sovranista” è che si vuole porre rimedio ai guasti della globalizzazione, la quale ha reso gli Stati e le culture prede di poteri mobilissimi che li sovrastano e li fagocitano.

Non v’è dubbio, è certo, che ci si trovi dinanzi oggi ad un mondo “globalizzato”, in cui i movimenti di beni, informazioni, capitali, e persone siano di un’estensione e di una rapidità mai prima raggiunta nelle relazioni sociali. Ciò è dovuto in parte ai progressi delle tecnologie dell’informazione, che rendono il mondo una sorta di paradigma teatrale aristotelico: vi è tendenziale unità di tempo e di spazio negli affari dell’intero genere umano. Spazio e tempo si contraggono e si fissano in un punto che risulta universalmente vigente. Distanze e tempi si annullano. Tutti siamo dappertutto e sempre insieme. Il risultato è la perdita di orientamento temporale e spaziale, ed una certa fungibilità delle diverse esperienze di vita e di rapporto. L’identità soggettiva si rende così “liquida”, come “liquida” diviene la comunità. Gli aeroporti sono dovunque uguali, lo stesso potrebbe dirsi delle periferie dei grandi centri urbani. Si assomigliano tutti. I prodotti in un supermercato sono dovunque grosso modo gli stessi. Così si è “spaesati”, ed allora la soluzione sembra essere quella di un riposizionamento “paesano”, “nazionale”, fortemente identitario, là dove però il paese, la nazione, l’identità devono essere ripresentati come soggetti facili da fruire. Vanno resi disambigui. Ma così facendo se ne riscrive la natura, la storia, che invece sono plurali, complesse, dunque per certi versi ambigue, leggibili da diverse e contrastanti prospettive. La storia, la tradizione, l’identità, la nazione la si appiattisce per servirla pronta da digerire. Ed a tal fine si deve trovare un “altro”, servirlo come “pericolo”, al quale sia semplice contrapporsi e compararsi, contro il quale non sia complicato autocelebrarsi.

La globalizzazione però è stata anche il frutto dello smantellamento di quell’ordine rooseveltiano di relazioni internazionali pensato negli anni Quaranta per civilizzare, per rendere più miti e meno aggressive le relazioni tra Stati. Certo, fu anche il progetto del “Grande Minotauro”, la proiezione mondiale di un Impero americano. Ma accanto a questo vi era un’idea potente di cosmopolitismo politico e giuridico all’interno del quale lo Stato nazionale poteva ricostituirsi come Stato sociale. Allo stesso modo della Comunità Europea che servì alla ricostruzione degli Stati nazionali europei letteralmente sbriciolati in legittimità e capacità operativa dalla seconda guerra mondiale. Lo Stato nazionale si è ricostituito come progetto allo stesso tempo di integrazione sociale e di riconciliazione sovranazionale. Le costituzioni di vari Stati europei (quella italiana paradigmaticamente) con la loro generosa apertura tanto ai diritti sociali ed alla equa redistribuzione della ricchezza quanto al temperamento della sovranità mediante il diritto internazionale sono lì a testimoniarlo autorevolmente.

 

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