Login Contatti | RIVISTA SEMESTRALE - ISSN 2421-0730 - ANNO IX - NUMERO 2 - DICEMBRE 2023

EDITORIALE – L’Europa e la guerra

In Editoriale
4 Settembre 2023

DI MASSIMO LA TORRE

Può plausibilmente sostenersi che v’è una relazione stretta tra Europa come continente e spazio politico e culturale e il fenomeno della guerra. Qualche giusfilosofo oxoniense potrebbe persino porsi la questione se non vi sia una relazione “concettuale”. Qualche astuto jurisprudent potrebbe allora giungere a sostenere che “the nature of Europe” sia la guerra, così come la “natura” del diritto è la coercizione. Si sa che nel mito greco Europa è una giovane rapita da un possente e bellicoso toro nel quale si è incarnato il divino Zeus. La vita adulta di Europa è così segnata da un atto di violenza, un sequestro di persona, un atto di guerra. Roma è fondata da due fratelli di cui l’uno uccide l’altro. E poi c’è il ratto delle Sabine, anche qui un sequestro e un rapimento, e una operazione militare. E da questa violenza saranno poi generati i futuri Romani. In quell’intenso e intelligentissimo saggio sul fascismo che è Paura della libertà[1], Carlo Levi identifica la “natura” dell’Europa politica nello Stato, e questa figura e pratica fa risalire al mistero del sacrificio cruento al Dio dei Romani. La città nasce col sangue del vinto, cosa che già in verità ritroviamo nella Bibbia, allorché è a Caino, l’assassino per antonomasia, marcato sulla fronte per il suo delitto, che si fa risalire l’origine della città.

D’altra parte, la prima grande opera letteraria, il poema fondante, della cultura europea è un canto sulla guerra, l’Iliade. Qui si celebra l’ira funesta del pie’ veloce Achille, per i cui funerali si sgozzano decine di prigionieri troiani. Ilio è vinta e distrutta, le sue donne violentate, poi uccise o rese schiave, e queste ultime alla fine come nel caso di Cassandra, la figlia di Priamo, concubina a forza di Agamennone, condivideranno la sorte tragica dei loro padroni. E l’ira di Achille inizia perché Agamennone pretende il bottino che gli spetta come Duce degli Achei: Ippodamia, Briseide, figlia di Briseo, una fanciulla di cui aveva preso violentemente possesso il biondo Achille. Guerra, dunque, massacri, e violenza estrema sulla donna. Oltreché sui bambini, ché Astianatte viene trucidato. Guerra e sottomissione, e la virtù intesa come forza che si manifesta nella battaglia.

Ma la relazione tra Europa e guerra è empiricamente e storicamente, e non solo simbolicamente, dimostrabile. Se si scorrono gli annali della Storia della Terra, è vero che la guerra la si ritrova dappertutto ab origine. Abbiamo avuto un antropologo, Pierre Clastres, che ha persino sostenuto che il fatto delle società cosiddette primitive, quelle che ci siamo trovate ferme e sprofondate nel passato immobile, all’indomani della scoperta dell’America – i Tupì-Guaranì per esempio della foresta amazzonica – devono alla guerra la loro resistenza a far partire la storia della divisione in classi e in gerarchie sociali. La guerra sarebbe qui il fattore che impedisce il sorgere dello Stato[2], non ciò che lo costituisce come invece sosteneva Kropotkin e più di recente David Graeber. Per Clastres la violenza tra tribù, la loro guerra, mantiene queste libere di servitù, chiedendo una permanente mobilitazione del capo in termini di energia economica e fisica, e di possibile immolazione. E deve essere assente, perché è sempre occupato a combattere fuori dal villaggio. La tesi di Clastres è una sorta di teoria del politico come determinazione della linea divisoria tra amico e nemico (Carl Schmitt) al contrario. Nel concetto del “politico” del giurista tedesco la politica, la dominazione gerarchica (paradigmaticamente lo Stato come comando di un sovrano in essenza sempre assoluto) è resa possibile dalla guerra, sì che l’opposizione tra un amico ed un nemico si dà come questione di vita e di morte. Per Clastres quello stesso “politico” (il Duce, lo Stato) è reso impossibile dalla stessa dinamica bellica tra Feind, nemico, e Freund, amico.

La violenza – dice l’antropologo francese – rivolta verso l’esterno immunizzerebbe l’interno della comunità riguardo all’autorità che incarna ed opera quella violenza. Tuttavia, se si guarda alla storia degli ultimi duemila anni non si può non constatare che è l’Europa il terreno di scontri militari permanenti, eppure ciò non l’ha salvata dal “politico”, dallo Stato. La guerra, qui, è un evento ripetuto, un “eterno ritorno” quasi, mentre in Asia, in Cina per esempio, la guerra è assente per secoli. Ed è così del resto che si tematizza l’immagine dell’Europa nella saggistica politica europea, come terra di guerrieri e terreno di battaglie.

L’Europeo è più virile e bellicoso, e forte e bravo in guerra, dell’Orientale. Lo dice Machiavelli, lo ripete Montesquieu. L’Italia diviene sonnolenta e decadente, lo sostiene Machiavelli, perché le sono assenti le virtù militari, ben esercitate invece dai cugini francesi. Guerra è avventura, voglia di fare, di superarsi, di mettersi in gioco, anche capacità di sacrificio, ciò che il fascismo novecentesco europeo, in particolare tedesco, chiamava “idealismo”, contrapponendolo al “materialismo” di coloro per cui lo spargimento di sangue era solo orrore. Im Westen nichts Neues, “Niente di nuovo sul fronte occidentale”, il magnifico romanzo pacifista di Erich Maria Remarque[3], è bollato dalla destra nazionalista tedesca come “materialista”, e il film da questo tratto è vietato nei cinema della morente Repubblica di Weimar. Quel divieto è un ulteriore colpo alla repubblica e una vittoria del fascismo emergente. La battaglia culturale nell’Europa degli anni Venti si dà sull’interpretazione e la narrativa della Grande Guerra. Il sacrificio di vite è stato immenso e fondamentalmente inutile. Ma in ogni città, villaggio italiano e francese e tedesco si costruisce un monumento ai caduti che trasuda orgoglio nazionale ed esaltazione della guerra. Nelle chiese britanniche le pareti sono ricoperte dei nomi delle centinaia di giovani caduti. E le bandiere dei reggimenti stanno appese alle volte della chiesa, e non suggeriscono il fallimento della violenza, ma ne esaltano l’“idealismo”, vale a dire il fondo di assoluta irrazionalità ed obbedienza all’autorità che l’ha resa possibile quella violenza meccanica. Questa è l’Europa degli anni Venti. E tutto ricomincerà nel 1939, in una scala, se è pensabile, ancora più grande.

Ma è la nazione moderna in Europa che si è forgiata nella guerra. Ha inizio con la Francia rivoluzionaria a Valmy, nel 1792, quando un esercito di pezzenti e popolano sconfigge le armate ben addestrate e in bianche uniformi degli eserciti aristocratici. Goethe che era presente, dal lato aristocratico, dirà subito che aveva visto nascere una “nuova storia”. Di certo era nata la nazione francese, che poi tracimerà nel resto d’Europa giungendo con Napoleone fino a Mosca. E con la guerra si produce la Germania e la sua unità. È la guerra franco-prussiana e la sua vittoria da parte di Bismarck che consente al Re di Prussia di dichiararsi Imperatore del Secondo Reich nel salone degli specchi di Versailles.

Non diversa è la storia dell’unità d’Italia, frutto delle battaglie dei Piemontesi contro gli Austriaci e della romantica avventura militare di Garibaldi. Il momento costituente idealtipico della nazione europea non è tanto la rivoluzione democratica, quanto la guerra, sia questa vinta (come nel caso della Francia, dell’Italia e della Germania), oppure persa (come per il caso dell’Austria, o della Polonia, e fors’anche della Russia proto-sovietica). E che dire degli Stati Uniti, la cui identità nazionale si sviluppa con due guerre sanguinose: la prima contro la madre patria Inghilterra; la seconda guerra civile, o meglio interna tra due diverse concezioni del federalismo e della cittadinanza. E gli Stati Uniti sono l’Europa proiettata nel futuro, l’Europa che si sbarazza delle proprie tradizioni, del feudalesimo della casta nobiliare, ma non di quella della guerra. Che si pratica anche per formare il territorio federale. Prima si sterminano i nativi[4], le nazioni indiane, poi si occupa un terzo del Messico, infine si fa la guerra nel 1898 alla povera Spagna, che non ha ancora capito con chi deve fare i conti, un nuovo impero emergente.

Guerra è anche e soprattutto l’impresa coloniale. Lo rivela in modo evidente l’ultima avventura coloniale europea, quella Italiana in Etiopia, che è guerra di sterminio, con i gas usati a cuor leggero contro popolazioni inermi, con l’aviazione che si diletta a bombardare in un cielo di cui è assoluta padrona. In Libia si massacrano i beduini, si impicca con nonchalance. E di quelle due imprese vigliacche e cruente oggi non è rimasto nulla, nemmeno la lingua, ché né in Libia né in Etiopia si parla oggi l’Italiano.

Il colonialismo, che nell’Ottocento si fa imperialismo, addestra alla sopraffazione ed alla crudeltà, serve da terreno di esercizi a eserciti e polizie che poi si volgeranno nella pratica dell’autoritarismo e del totalitarismo. Hannah Arendt lo spiega bene. Nella seconda parte del suo grande libro Le origini del totalitarismo[5], è l’imperialismo che prepara il fascismo, che inietta il veleno del razzismo nella cultura europea, che mette alla prova le tecniche di distruzione dell’avversario poi applicate dalle dittature autoritarie nel vecchio continente.

Franco, Caudillo “por gracia de Dios”, che massacra la repubblica spagnola, lo fa col suo esercito coloniale, addestrato alla violenza estrema, passando dall’Africa alla penisola iberica, ed utilizzando le stesse tecniche militari usate contro le tribù ribelli del Marocco e del Sahara. Ed anche dopo la Seconda guerra mondiale l’Europa, che pure aveva vissuto il trauma del nazismo, non rinuncia al sogno imperiale. L’Olanda impiega i danari del Piano Marshall per mantenersi padrona dell’Indonesia impegnandosi in una costosa campagna militare. L’Inghilterra molla, sì, l’India, ma non cede le colonie africane, e qui fa guerra dopo guerra. Il Portogallo si dissangua in Angola e Mozambico fino alla metà degli anni Settanta lottando contro i movimenti di liberazione nazionale africani. Ma il caso più eclatante è quello della Francia.

Dopo la resa del giugno 1940 e i quattro lunghi anni di occupazione tedesca la Francia, liberata dagli Alleati nell’estate del 1944, è un paese vinto, nonostante lo si includa poi nel novero delle nazioni vincitrici contro il Terzo Reich e l’Italia fascista. È un paese vinto e nel midollo umiliato e demoralizzato. Il regime di Vichy, un regime anch’esso fascista e antisemita: il suo simbolo è l’ascia bipenne che poi adotterà Ordine Nuovo, il gruppo fascista terrorista italiano manovalanza delle stragi di Stato. Quel regime di Vichy, una Salò francese di maggior lusso, con a capo il senile generalePétain, ha contribuito efficacemente allo sterminio degli ebrei in Francia. L’atmosfera di decadenza di quella Francia è ben scritta nel romanzo “duro” di Simenon, La neve era sporca[6]. Tradimenti, ebrei venduti ai tedeschi per qualche franco e prima rapinati dei loro averi, collaborazionismo diffuso, fascismo inoculato alla gioventù, una borghesia ed un esercito che ha preferito Hitler agli ideali democratici ed a difendere libertà, uguaglianza e fratellanza. È la Francia dell’ultimo Céline e della Divisione Charlemagne delle Waffen-SS, che è l’ultima pattuglia di difensori del bunker d’Hitler.

La ritrovata libertà dopo il Quarantaquattro però non libera la Francia dei suoi fantasmi coloniali. Si vuole mantenere l’impero anche dopo la Resistenza e la Liberazione e la promessa di un maturo Stato repubblicano. Si vuole mantenere il controllo del Canale di Suez contro la nazionalizzazione di Nasser, e così su Suez arrivano i paracadutisti di Francia e Gran Bretagna, col supporto israeliano contro l’Egitto repubblicano. E qui questa volta la rinnovata voglia di Impero trova l’ostacolo degli Stati Uniti che impone ai suoi alleati di ritirarsi e di rinunciare all’occupazione di Suez. Era il 1956. Ma un anno prima era caduta l’Indocina sollevatasi contro il controllo francese, e l’esercito tricolore aveva dovuto arrendersi a Dien-Bien-Phu, in una mostra di suprema debolezza. Un’altra resa dopo quella ignominiosa ai Tedeschi del giugno del Quaranta. Ma la Francia continua nel suo sogno imperiale. Ed è la sanguinosissima, cattiva, crudele guerra d’Algeria. Qui si trucidano villaggi, si tortura in massa. È una vera e propria orgia di sangue. Che è solo de Gaulle nominato Presidente con la nuova costituzione del 1958 a terminare il massacro. La Francia cede ancora. L’Algeria si dichiara repubblica indipendente.

La guerra degli Europei, dunque, si prolunga ben oltre il 1945[7] e in qualche modo smentisce tutti i proclami di pacificazione e pacifismo che la classe politica sparge a piene mani nelle macerie delle nazioni europee travolte dal disastro massimo della Seconda guerra mondiale. Ci si promette di non fare più guerre, di non riprendere ad uccidersi ciecamente. Francia e Germania devono finire d’essere Erbfeinde, nemici ereditari, perché l’Europa possa risorgere e curare le sue gravissime ferite.

La riconciliazione tra queste due nazioni è l’obiettivo primordiale e il punto di partenza del progetto di integrazione europea. Di questo progetto ci sono almeno tre versioni e tre corrispondenti documenti. Il primo di questi è il Manifesto di Ventotene firmato da Rossi e Spinelli, due antifascisti, un liberale e un comunista, rinchiusi al confino dalla dittatura. Il Manifesto è un j’accuse contro tanto il capitalismo monopolistico e guerrafondaio quanto contro lo Stato angustamente nazionale e nazionalista. La rivoluzione socialista, che deve esserci, se si vuole salvare quello spirito di uguaglianza e libertà che anima la lotta antifascista, deve coniugarsi col superamento immediato della forma dello Stato nazionale. Un’unione federale è dunque il fine che deve darsi il movimento operaio europeo nelle sue varie e plurali componenti.

Abbiamo poi il discorso tenuto da Churchill nell’estate del 1946 a Zurigo dove preconizza una federazione degli Stati europei continentali (l’Inghilterra non vi è ancora inclusa, in ragione del suo rango di Impero). Ma il documento più importante e foriero di conseguenze è la dichiarazione del ministro degli affari esteri del governo francese, Schuman, il 9 maggio 1950. La data non è scelta a caso; è la stessa data della fine della guerra mondiale di cinque anni prima, la resa senza condizioni della Germania nazista. L’integrazione europea, dunque, si inscrive nella stessa storia di lotta contro il fascismo e il nazionalismo estremo. Vale ancora una volta rileggere le parole di Schuman: «La pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano». È la pace, e il ripudio della guerra, ciò che motiva e dà impulso al processo di integrazione europea a partire dal Trattato di Parigi del 1950 che istituisce la CECA, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio. Non si vuole la guerra. Ma nel frattempo la Francia trasferisce il campo di battaglia dall’Europa all’Asia ed all’Africa.

 È come se l’Europa non potesse finalmente fare a meno della guerra. Come dell’oro, del profitto. Oro e guerra segnano permanentemente la storia europea. La scoperta dell’America si fa con degli eserciti in cerca dell’oro, e per questo si massacrano i nativi. Lo si fa ossessionati dall’Eldorado, da un’utopica cornucopia dell’oro e dell’argento. Del denaro. David Graeber in The Dawn of Everything[8], interrogandosi sull’origine del denaro, lega questo storicamente alla guerra. Moneta si batte e oro si vuole per avere degli eserciti. E l’esercito, almeno quello moderno, ovvero quello strutturato in maniera geometrica, pare essere un’invenzione tutta europea, il cui modello influenza poi la struttura e le operazioni della fabbrica – come sottolineava Lewis Mumford.

Eppure, dal 1945 viviamo nell’illusione che l’Europa sia uno spazio di pace, un giardino delle meraviglie – come ci rimprovera Josep Borrell, il ministro degli esteri, bellicista, dell’Unione Europea. Ovvero “Venere”, sinuosa, sonnolenta e lasciva, ma accomodante rispetto al Marte guerriero e competitivo e scattante degli Stati Uniti d’America – come vuole Robert Kaplan. Ma ora con la guerra in Ucraina l’Europa si risveglia dal suo lungo letargo pacifista e nuovamente imbraccia il fucile. Borrell e la Von der Leyen vanno a Kiev in una specie di tenuta militare (come l’eterna maglietta kaki di Zelensky), e ciò potrebbe solo far sorridere, se non fosse il segnale di un ritorno alla forza nelle relazioni internazionali e nella stessa autocomprensione d’Europa. Questa ora pare ripresentarsi ora come il “dark continent”, il continente “oscuro”, nero, di cui ci ha intelligentemente edotto lo storico Mark Mazower[9].

Questo continente, che si ricolora di nero, sembra non più condividere la lezione antimilitarista e antiautoritaria che Remarque traeva dalla sua esperienza sul fronte occidentale, con le sue inenarrabili, inutili, insensate sofferenze. Che è la stessa che ancora Céline ci offre nel suo Voyage au bout de la nuit[10]. No; la lezione ora si assomiglia vagamente a quell’altra tratta dalla Prima Guerra Mondiale dal tenentino Ernst Jünger in quelle che lui chiama romanticamente e quasi nostalgicamente “tempeste di acciaio”. La guerra è per lui un’esperienza formativa interiore, innere Erlebnis[11], che ci trascina al di là della convenzionalità e della dimenticanza di noi stessi, del nostro vigore, delle nostre immense potenzialità di sentire, essa ci rivela chi siamo e ci costruisce in una ultima opera di Bildung, educazione e formazione, di costituzione. Nella trincea si forma la comunità come entità statale e si rivela finalmente anche agli scettici. In trincea per il tenente Sturm, il nome è già tutto un programma (significa “assalto” in tedesco), «adesso la vita dei sensi era più intensa»[12]. «Laggiù una stirpe nuova dava vita a una nuova interpretazione del mondo, passando attraverso un’esperienza antichissima. La guerra era una nebbia originaria di possibilità psichiche, carica di sviluppi»[13]. «Laggiù, sul campo di battaglia non c’era un organo dello Stato, bensì lo Stato come un tutto»[14].

Ora, la guerra è da sempre al centro della teoria politica d’Occidente. D’essa possono rinvenirsi almeno quattro principali concezioni. Innanzitutto, c’è la guerra vissuta e pensata come “peste”, evento apocalittico, il “cavallo rosso” dei quattro cavalieri dell’Apocalisse. Punizione della malvagità innata degli esseri umani ed allo stesso tempo espressione massima di questa. Un’epidemia colpevole. È evento che sfugge ad ogni controllo di razionalità. È anzi la massima espressione del sonno della ragione umana. Può risultarci del tutto insensata, pura ananche, fato tragico, senza senso; oppure, ma per certi versi bestemmiando, iscrivendosi in un altissimo disegno provvidenziale della divinità che regge il mondo. Con la guerra l’Altissimo castiga e decide il destino degli esseri umani che non posson sottrarsi al peccato originale.

L’altra dottrina è quella della guerra come “missione”, una teoria teleologica o funzionale. È come il vento che mantiene viva l’aria della società. È un segno della storia e della sua fine, e dei suoi fini. Una tappa verso l’epifania. Pur manifestazione dell’Anticristo, è vittoria su questo. È evento che si svolge nello spazio di una specifica e storica razionalità finale. La “storia del mondo”, Weltgeschichte, spazio di guerra, è il “tribunale del mondo”, Weltgericht, – dice Hegel. D’altra parte, il Dio dell’Antico Testamento è il Dio degli eserciti, ed è con la guerra sulle altre nazioni, che talvolta vanno pure sterminate, che il suo popolo si conferma come l’eletto. Mosè scendendo dalla montagna che lo ha visto dialogare con l’Onnipotente, e trovando nella sua gente tanti che hanno sacrificato al “Vitello d’Oro”, non esita a decretarne il massacro.

Ma vi è della guerra una concezione diciamo così meno drammatica. Nessuna escatologia qui. È un gioco della politica come dimensione strumentale e per certi versi neutrale. È la sua continuazione con altri mezzi – dice Von Clausewitz[15]. Si tratta di una partita a scacchi per il dominio dell’uomo sull’uomo, o per la salvaguardia del suo spazio vitale. Comunque, sfugge al giudizio di moralità. C’è una dimensione normativa della guerra indipendente da ogni altra normatività, sia quella morale ovvero quella giuridica. Per essa solo è appropriato il calcolo prudenziale. È evento che si svolge nello spazio retto dalla razionalità strumentale. I suoi fini non sono sottomessi all’etica del valore, solo a quella della responsabilità che regge l’uomo politico. E che in buona sostanza dipende dalla autenticità con cui tale responsabilità si assume.

Vi è infine la teoria della guerra come spada del giusto. Corretta solo come legittima difesa o come prevenzione di un male ingiusto. Deve obbedire ad una causa giusta. È evento che si svolge entro lo spazio della razionalità morale ovvero giuridica, come è nel caso della giuridicizzazione della guerra come sanzione di diritto internazionale secondo la dottrina di Hans Kelsen.

Ma vi è una quinta concezione, cui si è già accennato, mai specificamente elaborata, ma grosso modo esplicita in molto nazionalismo più o meno liberale. Si tratta della guerra come “momento costituzionale”, come fatto fondativo della comunità. Fondazione dell’ordine costituzionale, come produzione dell’ordine politico. Ora, è quest’ultima concezione che si sta facendo nuovamente sentire, anche se in modo equivoco, nella recente vicenda della guerra d’Ucraina. L’Unione Europea, che pure si era nel passato auto-concepita come ordine che impedisce la guerra e rifugge da questa, ora pare interpretare la guerra d’Ucraina come l’evento che può darle la richiesta, e finora in buona sostanza assente, legittimità come ordine politico proprio e sovrano. È questa guerra il suo “momento costituzionale”. Nel sostegno bellico all’Ucraina, nella guerra contro Russia, è l’Europa che mette alla prova la sua unità, la sua determinazione[16]. I Russi attaccando gli Ucraini stanno attaccando nostri “valori”, l’idea di un’Europa federale e capace di autonoma strategia geopolitica. Con la guerra l’Europa entra a far parte del novero delle potenze mondiali. O almeno così si crede. Hic Rhodus, hic salta. Qui sta il Dnepr, qui si salta.

[1] Neri Pozza, Milano, 2018.

[2] Si legga P. Clastres, Archéologie de la violence: La guerre dans les sociétés primitives, Editions de l’Aube, Paris, 2022, ma soprattutto P. Clastres, La société contre L’Etat: Recherches d’anthropologie politique, Minuit, Paris, 2011. Su cui mi permetto di rinviare al mio Pierre Clastres, il marxismo e la storia, in Nuovo Riformismo, 1982.

[3] E.M. Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale (1928), Neri Pozza, Milano, 2016.

[4] Cfr. G. Chamayou, Les chasses à l’homme, La fabrique, Paris, 2010, capitolo quarto.

[5] H. Arendt, Le origini del Totalitarismo, trad. it. Einaudi, Torino, 2017.

[6] G. Simenon, La neve era sporca, Adelphi, Milano, 1991.

[7] Cfr. T. Judt, Postwar: A History of Europe after 1945, Penguin, London, 2006.

[8] D. Graeber, D. Wengrow, The Dawn of Everything: A New History of Humanity, Penguin, London, 2022.

[9] Si legga M. Mazower, Dark Continent: Europe Twentieth Century, Vintage Books, New York, 2000.

[10] F. Céline, Voyage au bout de la nuit, Denoël et Steele, Paris, 1932.

[11] Vedi E. Jünger, Der Kampf als inneres Erlebnis, E.S. Mittler & Sohn, Berlin, 1922.

[12] E. Jünger, Il tenente Sturm, trad. it. di A. Iadicicco, Guanda, Parma, 2000, p. 24.

[13] Ivi, p. 26.

[14] Ivi, p. 28.

[15] Cfr. W.B. Gallie, Philosophers of Peace and War: Kant, Clausewitz, Marx, Engels and Tolstoy, Cambridge University Press, Cambridge, 1978, capitolo terzo.

[16] Cfr. per esempio M. Flammini, L’altra Europa. La guerra in Ucraina e la forza dell’unità, in Esiste una guerra giusta? 13 punti di vista su interventismo e pacifismo, U.T.E.T, Torino, 2023, pp. 73 ss.

SCARICA IL CONTRIBUTO INTEGRALE

Hai già votato!