Login Contatti | RIVISTA SEMESTRALE - ISSN 2421-0730 - ANNO IX - NUMERO 2 - DICEMBRE 2023

FORUM – La ribelle: rivolta nella Russia stalinista

In Forum
25 Febbraio 2020

A CURA DI MASSIMO LA TORRE

 

E. Jaroslavskaja-Markon, La ribelle, trad. S. Sichel, Guanda, Milano, 2018, pp. 180

Il Forum che si pubblica in questo numero è dedicato a un libro di recente apparso in varie lingue europee, e in ispecie in italiano, La ribelle di Evgenija Jaroslawskaja Markon (Guanda, Milano 2018). Si tratta di un documento eccezionale, un memoriale scritto originariamente in russo, da una detenuta in un campo di concentramento sovietico nella regione di Archangel’sk e ritrovato solo qualche decennio addietro negli archivi segreti della FSB, l’organizzazione che nella Federazione Russa ha preso il posto del KGB. Assai significativamente il quartiere centrale dell’FSB è la Lubianka, l’edificio tristemente noto dai tempi del primo terrore leninista, nei cui sotterranei si succedevano le esecuzioni sommarie degli oppositori al regime e dove tra gli altri fu anche detenuto Andrea Caffi, liberato miracolosamente e in extremis mediante l’intervento diretto di Angelica Balabanoff che andò personalmente a tirarlo fuori dalla cella.

Evgenija Markon è un’anarchica, che come tale è arrestata dalla polizia segreta sovietica, la GRU, negli anni Trenta. Nel campo di Archangel’sk sul mar Bianco, assiderata dal freddo glaciale, la Markon scrive una sorta di autobiografia, che ritrovata dai suoi aguzzini sarà poi usata come prova della irrimediabile attitudine controrivoluzionaria e dunque come anticamera all’esecuzione sommaria. Le pagine di questa donna sopravvissute ad uno dei momenti più atroci della recente storia umana rivelano in tutta la sua crudezza la tragedia della rivoluzione russa e dell’esperimento comunista. La rivoluzione all’inizio di orientamento socialista e libertario viene “catturata” dal partito bolscevico e trasformata in un’operazione selvaggia di sperimentazione autoritaria dall’alto la quale sconvolge la società russa nelle viscere più profonde. Per poi però riconsegnare la Russia ai fantasmi più atroci del passato, il nazionalismo panrusso, un sottosuolo antisemita, l’imperialismo e il militarismo più esasperato. E così del comunismo si ricorderà innanzitutto questo, il pugno di ferro, le deportazioni, le requisizioni di massa, la povertà imposta a milioni di persone, l’uniformità dell’anima piegata ad ogni costo, tradendo di quella idea le aspirazioni di giustizia e di uguaglianza. Perché, sì, in un tale regime vige l’uguaglianza, ma, attenzione, c’è qualcuno che è più uguale degli altri. E questo “ugualissimo” è anche un “generalissimo” e non tollera nessuna critica, e nemmeno la fantasia della critica, e la fantasia della fantasia di questa. E tali fantasie, anche là dove non ci sono, comunque vanno estirpate e lo si fa con l‘olocausto di innumerevoli innocenti mandati al macello. E quando l’esperimento dopo settant’anni  di prove varie miseramente crollerà, allora le masse che lo hanno “assaporato” vedranno nel capitalismo la nuova loro grande epopea. E così sarà dal comunismo che si partorisce il trionfo del capitalismo senza vincoli della fine del Novecento, il secolo breve, e dell’abbrivio del terzo millennio. Tanti morti, tanti sacrifici, tanto sangue e fuoco, per nulla: per dar vita a un Eltsin, il quale svende il proprio paese al miglior offerente, oppure a un Putin, autocrata populista che cerca di rimettere ordine  e ridare dignità ed orgoglio ad una società dissestata e demoralizzata, e lo fa rimettendo in auge gli idoli del passato che erano stati oggetto del disprezzo e della violenza dei Bolscevichi: il nazionalismo, la chiesa ortodossa, il mito della Grande Russia, lo zar, il Piccolo Padre, Nicola II ora santificato, l’oligarchia del denaro. Della stagione rivoluzionaria comunista russa non resta che cenere o fango o sangue ormai secco nelle mani di cadaveri mummificati.

Tutto ciò, questa immane tragedia, per certi versi è annunciata nel testo della Markon. Che ci rivela però soprattutto quanto intensa e profonda fosse la corrente anarchica e libertaria del movimento operaio e socialista russo tra Ottocento e Novecento. È questa che con la sua immensa capacità di sacrificio e di mobilitazione aveva educato le masse dei contadini e degli operai al pensiero autonomo ed alla rivolta. Bakunin, Kropotkin, Tolstoj, Berkmann sono tutti pensatori anarchici che imbevono di sentimenti antiautoritari intere generazioni ed un’intera cultura. La letteratura russa risente e riporta l’eco di quella temperie ideale.  I Dodici di Blok ne sono uno specchio. Così come l’Uomo Nero di Esenin. E la Margherita di Bulgakov. L’eco arriva fino all’opera immensa di Vasilij Grossman, che nulla ha a da invidiare alla fantasia potente di Tolstoj ed alla sua forza concettuale. E nell’opera di Grossman ritroviamo qui e là, sempre nel Gulag, in cella, degli spiriti eccezionali, e pur nella loro condizione carceraria, liberissimi. Lo stesso accade nell’opera di Pasternak, e persino in quella di Solzenicyn. E questi spiriti liberi, angelici pur dinanzi all’orrore staliniano, sono degli anarchici, che ancora si rifiutano di cedere alla forza normativa del fatto. La Ribelle è testimonianza di questa ostinata controfattualità, di cui si nutre il tessuto ordinario delle relazioni umane anche in tempi non eroici. Ma è solo in quelli nei quali spirano venti di gelo e si sparge la fiamma della distruzione alimentata dal potere politico che questo sentimento di resistenza e di solidarietà si rende evidente e acutamente, dolorosamente, manifesto. La Ribelle è così una specie di agiografia, una storia di santi, anzi di una santa, strana e pazza santa, laica, senza Dio ed alla fine anche senza speranza.

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